LA LETTURA
In un romanzo introspettivo segreti e redenzione nell’Italia del boom
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‘Boccadaride’, edito da Sensibili alle Foglie nell’aprile 2017, è un romanzo che entra in testa e non ti lascia fino all’ultima pagina, incalzante, privo di tempi morti, intenso ed emotivamente coinvolgente. Marco Milli ne è l’autore, colui che ti prende per mano e ti accompagna ad affrontare argomenti scomodi e urticanti del passato e del presente, dimostrando un grande rispetto per il lettore e la sua sensibilità. Una storia di solitudine, che fa emergere in tutto il suo impatto la stigmatizzazione della società di fronte a grandi temi come la disabilità, le origini e l’appartenenza, l’omosessualità, la malattia, le differenze sociali e la prevaricazione, le relazioni complesse; una storia in cui le ‘colpe’ inconfessate e i segreti rappresentano una catena che condizionerà fino alla fine un uomo, l’io narrante del romanzo. Leggiamo di emigrazione, di scandali familiari occultati e poi riemersi, di relazioni tra vecchie e nuove generazione, tra ricchi proprietari terrieri e povera gente. Leggiamo anche di un mondo che si lascia alle spalle la guerra e affronta la ricostruzione e il successivo boom economico degli anni ’60, aggredendo e travolgendo il passato in modo non sempre indolore.
Milli ci trasporta nei luoghi rurali dell’Appennino umbro dove i borghi, vivaci e colorati un tempo, si trasformano inesorabilmente in ammassi di case spopolate in rovina e ci descrive una Roma del passato, dove le macchine si contavano sulle dita delle mani e ogni quartiere era una piccola borgata, quasi un’emanazione dei paesi che ci si lasciava alle spalle per cercare lavoro in città. ‘Boccadaride’ è una storia di vita vissuta nell’ombra, in quella zona dove la realtà chiede di rimanere, in certe situazioni, per la propria stessa sopravvivenza interiore. I personaggi entrano ed escono dalla narrazione, lasciando il segno del loro passaggio attraverso le loro azioni, le loro caratteristiche, le loro parole, gli aneddoti divertenti o drammatici che li hanno resi immortali e il sorriso, bocca da ride, amaro, gioioso, ironico, dolce, triste, stirato o autentico che sia, fa da cornice alla storia di tutti loro. Ride anche il sole, sulle colline umbre…
Com’è venuta l’idea di questo toccante romanzo?
È stata suggerita da una vicenda di famiglia. La storia c’era già, era lì pronta che mi attendeva, ho dovuto solamente riconoscerla come tale e non solo come ricordo. Il romanzo è in parte realtà e in parte fantasia; ma, al di là degli episodi inventati di sana pianta, sono intervenuto in modo particolare nel dar voce all’animo del protagonista, cercando di sopperire ai silenzi, alle cose accennate, sottaciute, a quelle non dette dalla persona cui mi sono ispirato. Suo libro si percorre il cambiamento epocale di un’Italia che dalla ricostruzione e il successivo boom degli anni ’60 approda ai giorni nostri. Si legge della metamorfosi economica, urbanistica, sociale, e di una decisa svolta culturale. Cambia anche la percezione e l’atteggiamento davanti ai tabù, alle tematiche impronunciabili e inaffrontabili, da nascondere o rimuovere.
Cosa ci dice delle sue scelte narrative a proposito di questo?
Era la narrazione, che sinteticamente copre un cinquantennio circa, a richiedere uno sfondo temporale in cui la nostra società è mutata radicalmente. In Boccadaride il tempo riveste poi un’importanza per nulla secondaria. Ad attribuirgliela è il protagonista, che radicato com’è alle paure che l’infanzia e l’adolescenza con i loro traumi gli hanno trasmesso, non si avvede dei mutamenti che sono nel frattempo sopravvenuti. Egli elabora un meccanismo di difesa che, alla presa di coscienza della sua omosessualità, lo deve proteggere dal ritorno – certo, a suo avviso – dello stigma, della emarginazione, della sofferenza. E allora concepisce una temporalità del tutto personale, nella quale egli fa crescere l’illusione che il mondo e il luogo che lo hanno visto felice per l’ultima volta lo attenderanno immutati per ripagarlo delle difficoltà incontrate nel corso della sua esistenza. Il protagonista racconta in prima persona la sua vita intrecciata da fatti e avvenimenti che, fin dalla tenera età, lo segneranno per sempre. Suscita innumerevoli emozioni e sentimenti ma non compassione o commiserazione.
Ci può spiegare l’impatto di questa figura sul lettore, nelle intenzioni dell’autore?
Ho voluto raccontare una storia di solitudine. Credo che le emozioni, finalmente libere di agire nella narrazione, toccheranno chi leggerà il romanzo, perché c’è tanta materia viva, pulsante, sofferente, desiderosa di esprimersi e di essere ascoltata. A cominciare dall’equivoco sorto sui suoi genitori la cui rivelazione produrrà smarrimento, passando per lo sradicamento dall’ambiente originario, le difficoltà di ambientamento nella grande città, in cui si parlano lingue diverse da quella conosciuta, che fondamentalmente è il dialetto, la condizione di figlio di una ragazza madre, da trattare come zia, pena la perdita del lavoro e dell’alloggio, l’ipocrisia circostante. L’io narrante accumulerà in sé tante di quelle emozioni da poter essere paragonato a un vulcano ricolmo di magma incandescente. E, rimanendo nella metafora, la voce di quel vulcano è difficile che possa lasciar indifferente chi la ode.
Lei descrive il paesaggio dell’Alta Valle del Tevere, la campagna e l’Appennino umbro, con grande dovizia di particolari e osservazioni che solo un grande amore per le proprie origini può permettere. Come definirebbe, con qualche pennellata, la sua gente e la sua terra?
Semi-moderni custodi di un’antica sapienza, mi piace molto pensarli così. In genere erano persone semplici, buone, che sapevano dimostrare il loro affetto più con i fatti che con le parole. Era un altro mondo quello, una società oramai riscontrabile soltanto in certi musei. Il tessuto sociale era fittissimo, le campagne erano molto popolate, il sapere si tramandava di generazione in generazione. La loro fu una vita difficile, all’insegna della fatica e del sacrificio ma, potrà forse sembrare paradossale, era più facile della nostra. La necessità dell’aiuto reciproco in occasione dei grandi lavori estivi rafforzava ulteriormente i legami, già saldati in virtù dei matrimoni endogamici. E poi erano tutti più o meno uguali, avevano tutti poco, non c’era nulla da invidiare; non erano esposti a continui bombardamenti mediatici di modelli sbagliati da seguire a tutti i costi, pena il sentirsi emarginati. La figura di Elsa, la madre, più di ogni altra è una presenza fondamentale nel romanzo, destinataria di sentimenti ed emozioni contrastanti, a volte stridenti, fortemente conflittuali nel protagonista.
Come ha vissuto lei, autore, questa figura?
Elsa ha rappresentato per me l’occasione di mettere insieme i pochi ricordi che ho della figura cui si ispira e di legarli alla narrazioni che ho raccolto in seguito. Ne è emersa la figura di una donna che nella vita ha dovuto affrontare non poche difficoltà, conoscendo l’emigrazione, la crescita tutta sola di un figlio e il confronto con un mondo che di certo non le avrà risparmiato la sua riprovazione. È una persona che a dispetto dei tanti sacrifici compiuti ha saputo mantenere sempre il sorriso e diffondere gioia intorno a sé.
La ‘ricerca’ continua, incessante, è il filo conduttore della sua opera e della vita stessa del protagonista. Una ricerca che alla fine si interrompe bruscamente con un click. E’ un epilogo positivo e risolutorio oppure una resa incondizionata di un uomo affranto e ormai svuotato?
In tutta franchezza preferirei che a scoprirlo fossero i lettori.
La risata, il sorriso, sbucano nel suo romanzo a intervalli regolari anche nei momenti più dolorosi di sofferenza. ‘Bocca da ride’: sorrisi radiosi, divertiti, estasiati, malinconici, amorevoli, di circostanza, sereni, coraggiosi. Ride perfino il sole. Ma cosa sta dietro il sorriso?
Boccadaride, l’atto del sorridere, o l’accenno di esso, questo il significato della parola, rappresenta il lato della luna illuminato, quello che conforta, che è di sostegno nei momenti più bui; può essere inteso anche come una maniera di vivere, di impostare la propria interiorità, al fine di non lasciare che l’oscurità prevalga sulla luce. Il protagonista lo vive come una corda in mezzo al cielo cui aggrapparsi per non sprofondare nel suo io tormentato, ma non riuscirà mai a farlo proprio.
Cosa significa per lei, Marco, scrivere?
Talvolta mi sento come un moderno cantastorie. C’è una parte in me, temo sempre più preponderante, che si nutre di libri e di ricordi. Ebbene, quando riesco a fondere le due fonti di sostegno e a riversarle in uno scritto, posso dire di sentirmi soddisfatto. Scrivere, come leggere del resto, rappresenta la mia ‘uscita di sicurezza’ dalla realtà. Il solo sapere che c’è mi rassicura.
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Liliana Cerqueni
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