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Dopo aver lavorato con la BBC per oltre 17 anni in Medio Oriente e in Asia, il giornalista inglese Phil Rees, laureato a Oxford nel 1982, presenta uno stupefacente viaggio-incontro con gli uomini più ricercati del mondo. Un libro del 2006, ma ancora estremamente attuale e interessante e che, per certi versi, ha suscitato anche qualche critica e protesta. Condividendo couscous con gli islamisti algerini o noci di cocco e manzo con i guerriglieri colombiani delle FARC (compagnia e cibo eterogenei…), questo singolare giornalista attraversa, con la ragione e la storia, il concetto sconfinato, dibattuto, controverso, e talora confuso ed eccessivamente onnicomprensivo, di “terrorista”.

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La copertina di “A cena con i terroristi”

Tutto il libro è pervaso da una riflessione attenta sulla ricerca di significato di tale parola, sul suo valore, una vera e propria “odissea personale cominciata un quarto di secolo fa” da Rees in Irlanda, il giorno in cui l’Ira organizzò un agguato spettacolare dove rimasero uccisi 18 soldati inglesi. Iniziò allora, da parte del giornalista, la ricerca del significato reale della parola “terrorista”, un metodo di lotta ahimè antico, una forma di ribellione adottata da popoli oppressi, che non vedono altra via e possibilità di lotta e resistenza ai centri di potere forte, che non permettono loro di vivere con sufficiente dignità, certezza, giustizia e uguaglianza.
La parola resta difficile da definire, soprattutto laddove caricata di forte potere emotivo ed emozionale e quando si pensi (o si dica) che “il terrorista di qualcuno è il combattente della libertà di qualcun altro”. Niente di più veritiero. La storia è piena di esempi di questa duplice interpretazione. Da Cesare e Bruto a Gengis Khan, l’assassinio di innocenti e il rovesciamento dei potenti diventano la narrazione del nostro passato. Se l’espressione fosse esistita nel 1776, George Washington sarebbe stato considerato un “terrorista” dalla corte di Giorgio III e un “combattente per la libertà”, nonché un patriota, dagli americani; Nelson Mandela, che sosteneva il rovesciamento violento del regime dell’apartheid in Sudafrica, era un “terrorista” per Margaret Thatcher e un “combattente per la libertà” per Tony Blair, dice Rees. Punti di vista.
Scrive l’autore che “c’è chi è convinto che fare un viaggio per incontrare alcuni uomini accusati di terrorismo, per stringere loro le mani, sedersi e mangiare insieme a loro, sia come chiedere un passaggio al diavolo e divenire uno sempre pronto a giustificare il peggior genere di violenza conosciuta dall’umanità (…). Io la penso diversamente; l’opinione pubblica dovrebbe essere informata sulle cause della violenza e decidere da sola chi ha ragione e chi sbaglia. Solamente esaminando le origini della violenza si può cominciare a ragionare sulle sue cause”. Punto di vista complesso e difficile, ma comprensibile. Mentre gli Stati Uniti – dopo l’11 settembre, ma non solo – i loro alleati e il mondo in generale si confrontano ovunque con il nemico chiamato terrore, una riflessione merita spazio adeguato: chi è veramente un terrorista? Possiamo veramente definirlo con precisione?

Immaginiamo, allora, l’autore che attraversa i corridoi e gli uffici della sede londinese della BBC, fra l’elegante personale inglese, donne in sari sfavillanti e uomini imponenti in variopinti abiti tradizionali africani, un giorno X si accende un dibattito post 11 settembre sul significato di “terrorismo”. Per i propri redattori la BBC “bandisce” l’uso del termine, impegnandoli a evitarlo. Ho recentemente controllato se sia ancora così: lo è. Non perché si rifiuti il concetto, ma perché il termine, se in molti casi può essere corretto, in altri “assume anche un ruolo extra-giornalistico nel delegittimare una parte e affermare l’altra”.
Si vedano le linee guida redazionali della BBC (www.bbc.co.uk/editorialguidelines/page/guidance-reporting-terrorism-full):
Our policy is about achieving consistency and accuracy in our journalism. We recognise the existence and the reality of terrorism – at this point in the twenty first century we could hardly do otherwise. Moreover, we don’t change the word “terrorist” when quoting other people, but we try to avoid the word ourselves; not because we are morally neutral towards terrorism, nor because we have any sympathy for the perpetrators of the inhuman atrocities which all too often we have to report, but because terrorism is a difficult and emotive subject with significant political overtones”.
Anche Reuters evita l’utilizzo di “parole emotive” e non usa “termini come terrorista e combattente per la libertà, a meno che non siano una citazione diretta attribuibile a una terza parte”. Non ho trovato linee analoghe per la stampa italiana (che mi parere usare-abusare del termine), spero che qualcuno riesca a smentirmi…
Non si cerca di “caratterizzare” (e catalogare) i soggetti delle notizie quanto piuttosto di riferire su loro azioni, loro identità, loro retroterra, in modo che i lettori possano formarsi una loro opinione basata sui fatti. Un autentico impegno all’oggettività e all’imparzialità. I media americani, invece, soprattutto dopo l’attentato delle Torri Gemelle, apparivano traumatizzati e impiegavano continuamente il termine terrorista, CNN in primis.

L’Oxford English Dictionary definisce il terrorista come “un membro di un’organizzazione clandestina che punta a costringere un governo costituito attraverso ad atti di violenza contro i suoi stessi sudditi”. Arafat, nel 1974, diceva che “chiunque si batta per la libertà e la liberazione della propria terra dagli invasori, dagli occupanti e dai colonialisti non può essere chiamato terrorista”. Ancora una volta, allora, chi è un terrorista? Ancora nubi e dubbi sulla definizione, che vengono anche da un incontro di Rees con l’imam Ramee Muhammed, ex marine statunitense. Davanti a un kebab di pollo e agnello, rigorosamente halal, Rees dice a Ramee che sta preparando un libro sul significato di “terrorismo”, volendo comprendere l’accezione del termine presso persone diverse per estrazione sociale e culturale. L’ex marine esprime subito la propria opinione: ogni terrorista è “la vittima di un’aggressione ebraica o americana che osa rispondere”, “oggi la parola terrorismo indica un musulmano che sta combattendo per il suo onore e la sua dignità. Se vuole chiamarli terroristi, faccia pure. Per me, sono combattenti per la libertà”. L’affermazione è forte e per un lettore occidentale sicuramente sconcertante. Tuttavia porta a interrogarsi, seriamente e in maniera più obiettiva possibile, su visioni tanto diverse e diametralmente opposte del “mondo del terrore”. Riflessione durissima. E allora rieccoci nel 1994 ad Algeri, pronti a uscire dall’hotel Saint George, oggi El-Djazair, intenti a scendere le scale delle sue verande e dello splendido giardino secolare; eccoci in direzione di un caffè di Chlef, cittadina a 150 km a ovest della capitale, dove è stato organizzato l’incontro con membri dell’Esercito Islamico di Salvezza. E poi ci ritroviamo in Colombia, a Gerusalemme, nella città basca di Durango, in Iran.

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Phil Rees

Concludiamo, con questo originale e coraggioso giornalista, e con il professor Rubinstein del Center for Conflict Analysis and Resolution della Mason University, che “una definizione di terrorismo è impossibile” (o almeno quasi); “il terrorismo è solo la violenza che non vi piace”. E fermiamoci un attimo di più a pensare, lasciandoci ispirare, insieme ad Honoré de Balzac, quando scriveva che “ci sono due tipi di Storia, quella ufficiale, che è piena di bugie, e quella segreta, che nasconde le cause reali degli eventi ed è una storia vergognosa”. Il libro di Rees va in questa direzione. Non è sempre facile ma è una lettura (molto) critica della storia contemporanea, una riflessione accurata e attenta sui perché della storia, a volte segreta, di tante popolazioni oppresse e afone alle quali, come avrebbe detto Ryszard Kapuściński, un buon giornalista deve voler dare voce. Evitando ogni pericolosa stigmatizzazione, giustificazione e giudizio. Ragioni da capire, almeno. Aldilà degli appellativi e delle religioni, il dibattito (difficilissimo e spinosissimo) è aperto.

Phil Rees, A cena con i terroristi, Nuovi Mondi Media, 2006, 430 p.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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