di Federica Mammina
Il mondo è disseminato di guerre e conflitti di ogni tipo: ci sono le guerre religiose, quelle contro certe etnie, per impossessarsi di materie prime preziose e le guerre fra poveri.
Anche nel lontano paese delle Filippine, dal 2016, se ne sta combattendo una: la “guerra contro la droga”. Un nome ingannatore che potrebbe far pensare ad una giusta lotta contro i signori della droga, con lo scopo di salvare le persone da questa terribile dipendenza e dallo sfruttamento di delinquenti senza scrupoli. L’obiettivo di sradicare il commercio e il consumo di droghe illegali è quello che ha proclamato il presidente Duterte nel maggio 2016 non appena eletto, ma che di fatto si è tradotto in una guerra indiscriminata contro spacciatori, consumatori di droga e persone innocenti. Una guerra condotta con mezzi illegali, senza processi e con esecuzioni sommarie. La stessa polizia, cui il presidente ha garantito piena immunità, ammette di aver ucciso migliaia di persone (alcune fonti parlano di almeno 7000 vittime), ed in molti casi è stato dimostrato che il ricorso all’uso della forza non fosse affatto necessario.
Il substrato di questa guerra è la profonda stortura del voler colpire, al pari dei narcotrafficanti, anche i tossicodipendenti, che Duterte ha paragonato, in uno dei suoi tanti deliranti discorsi, agli ebrei, esprimendo il desiderio di sterminarli tutti proprio come fece Hitler.
Ma se dal passato abbiamo veramente imparato qualcosa, quante migliaia di persone devono morire prima di intervenire e porre fine a questo sterminio? Dobbiamo sempre aspettare di guardarci indietro per indignarci di tali aberrazioni?
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Redazione di Periscopio
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