Dopo aver vagabondato per una vita, ormai lunga vita ahimè, per gli impervi sentieri del pensiero umano, aver ascoltato la suadente voce di religiosi per i quali tutto è miracolo di Dio, dopo essere stato attraversato dal panteismo più ingenuo, abbracciato le idee più dure di rivoluzionari spesso pronti a cambiar bandiera, aver accettato di lottare per la salvezza dei più umili, essermi fatto violentare dai pensieri degli uomini armati per cui tutto si risolve con una sciabolata o una raffica di mitra, aver guardato sbigottito la facilità con cui i padri uccidono i figli o i figli uccidono i padri, aver scansato per non calpestarli i cadaveri di decine e decine di morti ammazzati, ecco, dopo tutto questo e altro ancora, sono arrivato a una sola conclusione possibile. La società umana ha un solo collante: l’odio. Pensavo sconsolato a queste mie deduzioni mentre, turbato, commosso, emozionato, passavo da un quadro all’altro della più bella mostra vista negli ultimi anni. Ero a Lucca nella bellissima sede della Fondazione Banca del Monte di Lucca, dov’è stata allestita quest’ultima esposizione dei quadri di uno dei più grandi pittori italiani contemporanei (non esagero): Paolo Baratella ferrarese errante. Scrive di lui la “Garzantina” dell’arte: “Il tema della condizione umana ha continuato a essere al centro della sua pittura caratterizzata da un realismo visionario carico di simbologie e citazioni”. In questa mostra Paolo Baratella ha tirato fuori dal suo stomaco lo sconvolgente massacro a cui furono destinati seicentomila ragazzi italiani, gettati come riso per le galline nelle trincee della Grande Guerra 15-18, sui campi oltrepiave, sulle cime contraddistinte nelle carte topografiche da un numero, Cima Dieci – Cima Dodici e via contando, gettati, questi bambini dal viso ancora glabro, con il loro fucilino imbaionettato contro le mitragliatrici nemiche. Eroi, dicevano gli alti ufficiali acquattati dietro le prime linee, dove il proiettile del mortaio non arrivava, eroi. Eroi come il protagonista della mostra di Baratella, un soldatino, un fantaccino come li chiamavano allora, ripreso con la mantellina nell’ultima fotografia da mandare alla famiglia prima di morire. Era suo zio il fantaccino e, nella mostra, è diventato l’immobile accusatore di un potere omicida, gestito dagli uomini coperti di gradi e di inutili medaglie, uomini codardi, stupidi, violenti, i loro nomi sono sulle enciclopedie trattati con reverenza, simpatia, ossequio. Baratella chiude il catalogo con una lunga, bellissima poesia-pensiero: “Paura, terrore, ansia, angoscia, nevrosi/ trincea della guerra sorella,/ infinito labirinto/ scavato nel fango, nella dura terra, nella roccia, nel ghiaccio…” Quadri enormi, che vorrebbero essere ancora più grandi, come grande è l’insolenza dei potenti che vendono e comprano terribili macchine da guerra, sempre più terribili, le comprano con i soldi della povera gente, per “difenderla”, dicono, e non (com’è la verità) per fare dell’uomo la bestia più crudele del creato.
(Il prossimo anno sarà il centenario delle prima guerra mondiale. Sappiamo già di quali crudeli fanfaronate demagogiche sarà capace la nostra società tristanzuola. Gli italiani saranno eroi, santi no, non ce ne stanno più in Paradiso).
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Gian Pietro Testa
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