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La Grande Bellezza, un’abbagliante bulimia citazionistica

Articolo pubblicato il 24 Marzo 2014, Scritto da Redazione di Periscopio

Tempo di lettura: 3 minuti


di Salvatore Billardello

Forse qualcosa è ancora rimasto da dire sul motivo per cui La Grande Bellezza ha avuto così tanti consensi all’estero e – a scoppio ritardato – in Italia. Iniziamo mettendo le mani avanti: a giudizio di chi scrive, il film risente eccessivamente dello stridore tra le allusioni simboliche, soltanto accennate e rapidamente abbandonate, e i referenti che incarnano questi significati – monumenti, cardinali o spogliarelliste che siano. Un impasto di sacro e profano, di starlette e cardinali, di eterno e caduco, che non provoca il febbrile brivido del tempo perduto al quale aspirerebbe Sorrentino, ma una certa indigestione dovuta all’accumularsi di metafore e citazioni impegnative in un contesto che non pare il più adeguato a metterle a proprio agio. L’effetto raggiunto è un involontario kitsch spinto, se non proprio la banalità più trita. Ma gli spunti interessanti indubitabilmente non mancano. Qui vorrei soffermarmi su due in particolare, perché grazie alla loro fusione Sorrentino si aggiudica un sicuro riscontro di pubblico e critica e ci induce – non so quanto consapevolmente – ad una riflessione sulla società di oggi: l’accumulo di citazioni e il topos della festa.

Il regista ha sempre ambito a fare il postmoderno, mescolando registri, codici e situazioni diversissimi, senza offrire un punto di vista privilegiato. Qui ci riesce maluccio, ma non è questo il punto. Nella Grande Bellezza c’è una mitologia di riferimento altissima: le occasioni perdute di Proust, citato scopertamente in una delle scene iniziali del film, animano lo sciupìo incallito dell’amore e del tempo del tragicomico Jep; l’evanescenza languorosa dell’apparato umano che popola le terrazze romane ricorda tanto le ambientazioni di Francis Scott Fitzgerald; lo strepitoso scambio di battute finali tra Gassman, Tognazzi, Mastroianni e Trintignant ne La Terrazza tiene a battesimo la requisitoria di Jep contro la vocazione civile sinistrorsa di Stefania. La cornice del testo è poi la celiniana citazione di apertura, come ad anticipare il senso inconcludente delle passeggiate del “re dei mondani”. Ad un certo punto, affiora persino un rapido, amletico richiamo a Breton. Di fronte a tale corredo di ammiccamenti, il più sincero, cioè l’unico adeguato al film, appare quello a Flaubert e al suo leggendario romanzo sul nulla. Perché La Grande Bellezza alla fine rimane una incompiuta sarabanda di umanoidi in disfacimento che nulla fanno e che al nulla tendono.

Ma è un nulla di concetto, questo sì, quello di Sorrentino. Pauline Kael, famosa critica americana, chiamò nel 1960 “come-dressed-as-the-sick-soul-of-Europe party” il genere di film sullo stile della Dolce Vita. La Grande Bellezza si inserisce comodamente in questo solco: è l’ennesimo film sulle feste senza che vi sia più nessun rito da officiare, se non la perdita di sacralità assoluta della contemporaneità, ed è l’ennesimo film sulle feste che riscuote un certo successo. Cosa sono i party dati da vecchi scarponi, da giovani rampolli arricchiti e da circoli pseudoesclusivi se non la manifestazione più alta del puro nulla, della straordinaria arte del velleitarismo instancabile, che va periodicamente in scena col solo scopo di “guardarci in faccia, farci compagnia, pigliarci un poco in giro…”, come afferma l’oracolo Jep? La festa della Grande Bellezza, questa logorrea di grandi dichiarazioni di intenti (le citazioni di cui sopra) risolte con esiti altalenanti, che caratterizza in egual misura l’ambizioso regista e i suoi personaggi, incarna l’enorme sperpero di talento di ciascuno di noi, dell’eredità dei padri spesa in chiacchiere, in alcol e in produzioni cinematografiche senza più radici (un confuso Sorrentino ha però l’ardire di affermare, tramite Suor Maria, che quest’ultime “sono importanti”). Da questo punto di vista, la pellicola appare una perfetta messa in scena non solo della romanità, non solo dell’Italia, ma di tutta la modernità. “So’ belli i nostri trenini, perché non vanno da nessuna parte” affermano all’unisono un amaro Jep, un compiaciuto Sorrentino, il pubblico gaudente e le giurie votanti, all’insegna del più narcisistico nichilismo. Che nel 2014 si conferma utile lasciapassare per ritirare premi e approvazioni.

[© www.lastefani.it]

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani