“Fragilità, il tuo nome è donna” sosteneva Shakespeare, nonostante l’ombra della fragilità incomba su molti suoi personaggi maschili. Uomini fragili come Otello, travolto dalla passione e tormentato dal tradimento di Desdemona, come Amleto, in preda alle ossessioni e ai fantasmi, o come Macbeth, manipolato abilmente dalla moglie, indotto a pulsioni aggressive che sfociano in omicidi efferati. In realtà la condizione di fragilità riguarda il genere umano nella sua interezza, si manifesta con mille sfaccettature, a volte ci caratterizza per l’intera vita, in altri casi ci coglie alla sprovvista, senza preavviso alcuno. La vulnerabilità fa parte integrante della natura umana perché non siamo onnipotenti o supereroi e tutti dovremmo avere il diritto di sentirci coscientemente fragili, senza dover simulare cortecce o corazze che rappresentino un tentativo di difesa da un’immagine di invincibilità che la società spesso impone.
Lo spettro delle fragilità è molto ampio e va dal disagio creato dai piccoli patemi d’animo alle grandi questioni molto più impattanti, condizioni che meritano tutte attenzione e sostegno. Un tempo esisteva un codice di comportamento condiviso, ora mancano spesso legami e riconoscimento reciproco, persi come siamo in uno smarrimento esistenziale evidente, dove infelicità e insensibilità trovano terreno fertile. Spiragli di fragilità sempre più rimarcabili vengono categorizzati e gestiti troppo spesso come emergenze burocratiche piuttosto che attivare umanità autentica e senso di protezione, impedendo in questo modo a chi è debole di rimanere parte attiva e costruttiva della propria vita. Silenzio e indifferenza, omertà davanti a bullismo e violenza in generale, sgretolamento del sistema familiare e relazioni virtuali che passano come sostitutive dei reali rapporti personali, prospettano un’immagine di società disorientata, vicina al collasso relazionale e comunicativo, semiparalizzata nella sfera emotiva e spirituale.
La letteratura non mente sulle fragilità: le descrive, le racconta, le sviscera, le accompagna, le asseconda; ha la capacità di scavare silenziosamente dentro i personaggi scorticati dalla vita, fino ad arrivare negli abissi dell’interiorità. Ce lo dice Alda Merini che ci sbatte in faccia le sue fragilità gridandole. Ce lo scrive Cesare Pavese quando dichiara: “In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, una certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia”. Ce lo scrive Giuseppe Ungaretti in ‘Veglia’, dove trascorre impotente la notte accanto al cadavere di un amico in trincea “massacrato, con la sua bocca digrignata”, nel 1915, alla vigilia di Natale. Lo scrive anche Moravia in ‘La romana’ (1949), dove Adriana, modella mancata, prostituta e madre per caso, confessa: “Avevo capito che la mia forza non era il desiderare di essere quella che non ero, ma di accettare quello che ero. La mia forza erano la povertà, il mio mestiere, la mamma, la mia brutta casa, i miei vestiti modesti, le mie umili origini, le mie disgrazie e, più intimamente, quel sentimento che mi faceva accettare tutte queste cose e che era profondamente riposto nel mio animo come una pietra preziosa dentro la terra.”
Anche Isabel Allende ci consegna le pagine più intime, profonde e intense della sua carriera letteraria, quando descrive la propria condizione di estrema fragilità al capezzale della figlia Paula, gravemente malata, nel romanzo che prende proprio il suo nome: ‘Paula’ (1995). “Ho passato quarantanove anni correndo, nell’azione e nella lotta, dietro mete che non ricordo, inseguendo qualcosa senza nome che era sempre più in là. Ora sono costretta a rimanere ferma e silenziosa; per quanto corra non arrivo da nessuna parte, se grido nessuno mi sente. Mi hai dato il silenzio per riflettere sul mio passaggio per questo mondo, Paula, per tornare al passato vero e recuperare la memoria che altri hanno dimenticato… Sono impaurita. Altre volte, prima, ho avuto molta paura, ma c’era sempre una via d’uscita, persino nel terrore del colpo di stato c’era la salvezza dell’esilio. Adesso sono in un vicolo cieco, non ci sono porte aperte sulla speranza e non so che fare”.
Il filosofo Seneca, in ‘La condizione umana’, richiama in modo molto moderno e attuale alla solidarietà verso tutti gli esseri umani, i più poveri, i disprezzati, schiavi, sofferenti, unico tra i filosofi pagani a pronunciarsi apertamente contro l’inumano e barbarico spettacolo delle arene. Vede gli uomini del suo tempo senza veli e mistificazioni: creature fragili, ignare, vittime di illusioni dovute dagli impulsi irrazionali. Un uomo inquieto, lacerato fra spinte contrastanti, conscio della sua stessa debolezza. ‘Fragilità’ deriva dal latino ‘frangere’, rompere: rompere un equilibrio, una condizione, una simmetria, un’armonia, un’unità dal punto di vista psicologico o fisico. Dovremmo dare fondo a tutte le nostre risorse per trasformare questa condizione in opportunità aiutandoci e facendoci aiutare.
In Giappone esiste una pratica, l’Arte del Kintsugi, dal profondo valore concreto e spirituale. Si dedica a riparare le fratture di un oggetto con l’oro e l’argento; la crepa diventa valore e rende l’oggetto unico e irripetibile e la linea di rottura diventa meravigliosa traccia luminosa di un solco dorato.
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Liliana Cerqueni
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