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La follia del viaggio: dalla letteratura indizi per comprendere la sindrome indiana
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2.SEGUE – La letteratura costituisce lo specchio principale dell’animo umano e la maniera più diretta e piacevole di presentare vicende e sensazioni che lo attraversano è un breve excursus sui diari di viaggio, alla ricerca di spiegazioni plausibili alla cosiddetta “sindrome indiana”.
La letteratura è, infatti, ricca di descrizioni di problemi psicologici dei residenti occidentali in India e della depressione e dell’angoscia che li accompagna. Non mancano casi di veri e propri deliri. Si pensi al “Viceconsole” di Marguerite Duras e a Jean-Marc de H., viceconsole di Lahore, personaggio avvolto da un’aura di mistero dovuto al suo “bizzarro comportamento”: deliri, depressione, visioni, mutismo, tristezza e spari sui lebbrosi che si avvicinano alla sua residenza. Tutto il libro ruota intorno allo scandaloso segreto e all’incapacità di dare una spiegazione logica al comportamento delirante del vice-console, che non sopporta la visione quotidiana della morte indiana. Nessuno sa fornirne una spiegazione dei deliri che lo colgono durante i ricevimenti. Charles Rossett, invitato all’ambasciata francese a Bombay, ipotizza la follia o la depressione per tale “maniaco del revolver” che grida la notte e che dissemina cadaveri nei giardini della sua residenza di Lahore. L’ambasciatrice stessa confessa che “tutti hanno avuto un inizio difficile a Calcutta… pure io sono caduta in una profonda tristezza….”. E forse il viceconsole “dallo sguardo morto” e terrorizzato dalla lebbra si annoiava, visto che la noia è un sentimento di abbandono colossale, a misura dell’India stessa, ove l’indifferenza predomina. E si nota come siano curiosi i suicidi di europei durante le carestie che mai li toccano….. Il sentimento di malessere degli europei di fronte alla realtà indiana, ove la malattia incombe e ove si lascia morire con indifferenza, è presente in tutto il libro.
Anche Giorgio Manganelli, nei suoi scritti, esprime le stesse sensazioni all’interno delle città indiane onnivore. Nel corso del suo viaggio in India, lo scrittore indica che tale Paese, man mano che gli si avvicina, invade il “suo cervello d’occidentale timoroso… enorme massa di carne…, con la vita e la morte onnipresenti, luogo di trasformazione, casa-madre dell’assoluto.., paese senza limiti, di mendicanti volontari, coscienti delle loro trenta reincarnazioni…”. L’Europa sparisce dietro il viaggiatore che si ritrova di fronte a una massa di essere umani che vive in un mondo anonimo, mortale e letale, ove tutto è morte e rinascita, in un misto di immondizie e di pazienza ferita, quasi a simbolo della sporcizia originaria dell’esistenza. E’ presente ovunque il sentimento che tale mondo indiano ignora la pietà per l’individuo e che il viaggiatore occidentale, che al contrario prova pietà e sensibilità alle malattie, si lascia facilmente prendere da un sentimento di colpevolezza ed è pertanto sconvolto dalla realtà. L’India sconvolge il viaggiatore, suscita in esso un sentimento d’angoscia, di profondità e di rinascita eterna. Il tempio di Kailâsa ispira una sorta di malessere fisico, dà l’impressione di percepire dei suoni per i quali le orecchie umane non sono state create, il pancreas sembra iniziare a sognare, l’intestino pare disegnare un ideogramma…Si è in un Paese senza limiti, ove una morte fertile e selvaggia invade tutto. Madras fa soffrire l’anima, l’angoscia e il terrore crescono in un Paese ove si ha l’abitudine di morire e che non conosce l’orrore. Le pagine sono toccanti, pagine che si concludono con la rivelazione che in India si sperimenta una paura vicina alla morte, una seduzione facile e impossibile, l’oscillazione fra follia e rivelazione, fra il facile e l’irrevocabile.
La letteratura resta dunque assai ricca di descrizioni di tali tipi di sensazioni.
Fra i numerosi romanzi popolati di viaggiatori nel continente e nella cultura indiani, ritrovavamo pure “Notturno indiano”, di Antonio Tabucchi. Nella storia di un individuo in viaggio per il continente indiano alla ricerca di un amico portoghese disperso – Xavier, la cui ricerca si rivelerà alla fine del libro essere la ricerca di sé stesso – si incontrano considerazioni e sensazioni comuni che molti autori esprimono in svariate forme e in diversi romanzi. Basti soffermarsi sulla riflessione del personaggio di Tabucchi per cui “in India, molte persone si perdono”, “un Paese fatto espressamente per questo” e “dove avere buona memoria non è un privilegio”. Il medico che il nostro personaggio incontra all’ospedale di Bombay gli consiglia di non avvicinarsi troppo ai malati, soprattutto considerata la “fragilità degli europei” (e il riferimento parrebbe essere non solo alla fragilità fisica di fronte a certe malattie, ma altresì alla loro fragilità psichica di fronte alla complessa realtà indiana). L’India viene descritta nelle pagine seguenti come “un universo di suoni piatti, indifferenziati, impossibili a distinguere” e alcune città, come Vasco de Gama nello Stato di Goa, sono presentate come pullulanti di mendicanti taciturni e angosciati, come fossero morti, accanto a imponenti templi sacri. Una fotografa incontrata durante il cammino, Christine, fotografa della miseria, suggerisce al nostro viaggiatore di non fare mai l’errore di andare a Calcutta, nella personale convinzione che, alla fine, è meglio conoscere il meno possibile del mondo…
Un noto giornalista francese, Olivier Germain-Thomas, nel suo libro “La tentazione delle Indie”, ci indica da un lato che la bellezza si ritrova in India nei più semplici gesti quotidiani e che il viaggio in tale Paese è “un’avventura che nutre i sensi e l’intelligenza”. D’altro lato, tuttavia, “senza una previa iniziazione” a tale realtà, continua Germain-Thomas, “sarà assai difficile non perdersi”. L’antica città di Lahore è allora descritta come “interrata nelle sua mura e isolata dal mondo…”, come “una vibrazione di vita… un insieme tessuto e contrastato nell’odore di terra, di grasso, di menta… sullo sfondo di grida, canti,… una terra ove lo straniero si scontra, si perde, vacilla, disturba, si ritrova e, soprattutto, si sa definitivamente altrove, in un turbillon, ove, persi i sensi, non può che lasciarsi andare a non essere che un piccolo elemento di un insieme che lo turba e l’oltrepassa”. L’arrivo in India è accompagnata dalla tenerezza e dall’emozione di esservi approdati ma altresì dall’inquietudine enorme di fronte all’ignoto. Un’angoscia che non inganna s’impadronisce del nostro viaggiatore che atterra sul suolo indiano, lo stesso viaggiatore che tuttavia resta estasiato una volta sedutosi sulle rive del Gange, accarezzato dal sole, e il cui rumore delle acque circondate da alte montagne ne calma l’animo. Se la bellezza è vivente e palpabile, tale paesaggio viene tuttavia turbato e il pellegrino si ritrova negativamente colpito dalla realtà circostante di bambini sudici e immondizie, di un “eterno balletto di mendicanti deformi”, di un’umanità collante di cui si è spettatori senza piacere. Tali contrasti, insieme all’aura di misticismo e di mistero che avvolgono l’India, e che in diverse misure e descrizioni sono narrate da numerosi autori in tutto il mondo, appaiono dunque essere inevitabilmente come il fattore principale di squilibrio della psiche non abituata dei viaggiatori occidentali.
D’altra parte, il fascino dell’India non lascia indifferenti studiosi, intellettuali e medici. Talora, il percorso personale, intellettuale e professionale di questi ultimi li conduce a intraprendere un viaggio di studi e formazione – per esempio, alla ricerca di una relazione fra la guarigione psicologica e l’insegnamento dello yoga, come nel caso dello psichiatra francese Jacques Vigne – che si trasforma in un vero e proprio “colpo di fulmine” per il Paese. Il breve soggiorno iniziale diviene allora stabile o reiterato nel tempo.
La soluzione ipotizzabile allo “choc dell’India”: il rimpatrio sanitario
La causa fondamentale dello choc del viaggiatore occidentale in India resta fondamentalmente dovuta al fatto che ogni individuo, inserito in un contesto a lui completamente estraneo e con valori totalmente diversi, si ritrova presto perduto e non riesce più a comportarsi normalmente. Si tratta di quello che Airault definisce come lo “choc dell’imprevisto”. I valori diversi costituiscono uno degli elemento scatenanti. Basti pensare a come in India vi sia una visione del tutto serena della morte, alla quale, al contrario, gli occidentali non sono mai abbastanza preparati. Il ciclo delle reincarnazioni rende l’idea della morte più tollerabile, quando in Occidente il tema è tabù. Di fronte alla morte allo stato puro che si presenta ovunque in India, il viaggiatore occidentale è completamente disarmato e solo il rimpatrio rapido verso il Paese d’origine, che lo reintegra nel suo corpo sociale e nei suoi valori, risulta efficace. Si rivela indispensabile la presenza di un medico che riaccompagna il viaggiatore su un aereo e che parli la sua stessa lingua, al fine di rassicurarlo e di farlo rientrare nello stesso universo simbolico. Una volta rientrati nel Paese d’origine, non sono quasi mai necessarie cure psichiatriche, dal momento che il soggetto si riadatta alla sua realtà e, quasi per miracolo, cessa qualsiasi tipo di delirio o allucinazione. Il “miglioramento” viene imputato al trattamento, alla separazione dal luogo patogeno e al rimpatrio in sé stesso. Tale ultimo elemento è particolarmente importante, ove si consideri che la prospettiva di rientrare nel proprio Paese reintroduce un limite al tempo che in India pare eterno e si rivela dunque terapeutico in sé. Secondo Airault, il rimpatrio è di per sé un trattamento, soprattutto ove il paziente vi partecipi attivamente, poiché costituisce un vero e proprio accompagnamento dell’individuo nel suo ritorno verso la realtà.
Ciò che è importante al momento del rimpatrio è cercare di trasformare tale momento di crisi in un’esperienza che possa arricchire e far apprendere i propri limiti. Per tale motivo, è necessario accompagnare “psichicamente” il paziente nel viaggio di ritorno, considerato che lo si accompagna in un viaggio duplice, reale e immaginario, ove il egli è lui stesso l’attore principale del suo spostamento fisico e psichico.
Il ritorno del “viaggiatore” verso la propria realtà con accanto un professionista che parli la sua stessa lingua e comprenda la sua situazione favorirà il recupero e il ritorno alla “normalità”, ove il ricordo dell’esperienza resterà viva senza provocare “ricadute”.
I casi del fenomeno descritto verificatasi in India sono stati talmente numerosi che il Consolato francese di Pondichéry e quello di New Delhi hanno istituito un apposito servizio psichiatrico. Un gran numero di casi analizzati in tali sedi hanno condotto alla necessità del rimpatrio più o meno immediato. “In un Paese ove il tempo pare in congedo dall’eternità”, continua Airault, “la prospettiva di rientrare a casa reintroduce un limite e, come tale, è terapeutico” di per sé. Tale momento è decisivo e la funzione dello psichiatra che accompagna il viaggiatore “perduto” nel suo rientro alla “normalità” viene avvicinata a quella del padre che aiuta a ritrovare la propria identità vacillante. Il rimpatrio deve allora essere effettuato gradualmente e dolcemente, con l’accordo, anche passivo, del paziente, al quale si deve spiegare il motivo del suo rientro. Si cerca di evitare l’utilizzo di medicine, ove si consideri che il rimpatrio in sé costituisce la migliore terapia, tanto più efficace se a esso il paziente abbia partecipato attivamente. Prima del viaggio si deve instaurare una vera e propria relazione terapeutica fra il paziente e lo psichiatra, ove quest’ultimo si libera della classica posizione di neutralità per essere più comprensivo e rassicurante. “Semplici anonimi passeggeri, medico e paziente non hanno più i piedi per terra e, nella carlinga dell’aereo, si crea una relazione di fusione favorita dalla privazione sensoriale … e una temporalità che non è più quella dell’eternità indiana…”. Normalmente, non si verificano episodi anomali durante il volo e all’arrivo, se spesso si nota un’iniziale recrudescenza dell’angoscia, si verifica altresì un miglioramento clinico che non rende necessario il ricovero ospedaliero inizialmente previsto. Allo stesso tempo, le allucinazioni visive o auditive scompaiono.
Da leggere:
Régis Airault, Fous de l’Inde: Délires d’Occidentaux et sentiment océanique, Payot, 2002, 240 p.
Graziella Magherini, La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte, Ponte alle Grazie, 2003, 219 p
Marguerite Duras, Il Vice-console, Feltrinell, 1986, 136 p.
Giorgio Manganelli, Esperimento con l’India, Adelphi, 1992, 104 p.
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio, 1984, 124 p.

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Simonetta Sandri
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