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Che nell’Italia della politica si facesse così tanta fatica a voltar pagina una volta per tutte, lo sapevano ormai anche i sassi. Chi ha un po’ più di memoria ricorderà cosa avvenne all’indomani di Mani pulite, quando sembrava dovesse finalmente cambiare tutto, la classe politica e la sua cifra morale in primis. In quell’occasione, sappiamo come andò a finire, cioè che non cambiò nulla, anzi, e che, al contrario, la vecchia guardia politica attualizzò mirabilmente gli antichi precetti del trasformismo ottocentesco (un retaggio tutto italiano del resto), come? Facciamo un rapido ripasso.
La vecchia Dc, la grande balena bianca, regina del centrismo moderato d’ispirazione cattolica e ago della bilancia della politica italiana per circa cinquant’anni, piombò in una crisi senza precedenti e subì una vera e propria diaspora in cui quasi tutti i suoi rappresentanti politici, seguendo le correnti interne del loro vecchio partito, se ne andarono chi a destra (Polo di Berlusconi) e chi a sinistra (L’Ulivo). Certo, non tutti e non subito. In effetti una parte della vecchia nomenclatura democristiana perseverò fondando nuovi partitelli rigorosamente di centro (Ppi, Cdu, Udeur, Margherita…), partiti comunque destinati dopo pochi anni all’estinzione e i cui membri, sempre più penalizzati dalla mancanza di consenso, decisero alla fine di confluire nell’attuale Pd.
Una sorte analoga la subì il Partito Socialista, praticamente dissoltosi all’indomani della caduta in disgrazia del suo leader maximo Bettino Craxi.
In sostanza, i due partiti di governo fino ad allora più importanti avevano chiuso i battenti ma i loro membri eletti erano corsi ai ripari, riparandosi sotto altre bandiere.
Del resto il Pci, ovvero il più grande partito della sinistra italiana (ed europea), iscritto da sempre al ruolo dell’opposizione, subì anch’esso una lunga e travagliata crisi d’identità (conseguenza evidente del superamento delle ideologie avviato nell’89 con la caduta del muro) che dagli anni novanta in poi lo portò a cambiar nome e simbolo svariate volte (Pds, Ds, Pd), a identificarsi nella nuova etichetta politica dell’Ulivo, e ad accettare al suo interno parte della pattuglia ex-Dc ed ex-Psi.
Anche il partito di estrema destra per antonomasia, il Msi, non attraversò indenne la graticola dei primi anni novanta, dagli stravolgimenti ideologici del dopo muro allo scandalo politico di Tangentopoli. Si limitò comunque, sotto la guida di Gianfranco Fini, a sciogliersi e a rifondarsi in un nuovo partito sempre conservatore ma di vocazione più liberale: Alleanza Nazionale, appunto.
Nel frattempo, pure i candidati eletti in quasi tutti gli altri partiti minori presenti fino ad allora in parlamento, soprattutto quelli che avevano avuto un ruolo di governo, si dispersero rapidamente confluendo nei movimenti politici nascenti.
Questo per quanto riguarda il vecchio, e il nuovo?
Adesso, a distanza di oltre vent’anni, sembra incredibile solo immaginarlo, ma nel ’94 la vera novità politica venne da destra, e fu rappresentata dalla nascita di Forza Italia e dalla cosiddetta discesa in campo di Silvio Berlusconi, un personaggio che oggi non ha certo bisogno di presentazioni.
Ancor prima, era comparsa un’altra compagine politica che, da realtà territoriale circoscritta al Veneto e alla Lombardia, in una manciata d’anni e alla guida del suo capopopolo Umberto Bossi, ottenne un consenso ampio e diffuso in tutto il settentrione che si rafforzò proprio dopo i fatti di Tangentopoli. Sto parlando naturalmente della Lega Nord.

In sintesi, gli anni novanta segnarono una svolta epocale per la politica italiana. L’inchiesta Mani pulite diede uno scossone determinante ai vecchi partiti di governo, portandoli di fatto a una crisi di credibilità e di consensi irreversibile. Personalmente credo che la svolta vera e propria fu l’entrata in scena di Berlusconi e del suo nuovo partito, partito che, nelle prime elezioni a cui partecipò (1994), divenne subito il maggior partito italiano.
Anche il nuovo sistema elettorale maggioritario, adottato per la prima volta dopo decenni di proporzionale, contribuì a cambiare radicalmente l’assetto dei nuovi partiti, obbligandoli a trovare alleanze e a riunirsi in grandi schieramenti elettorali. Da quel momento in poi, la partita si giocava tra le forze alleate di centrodestra e quelle di centrosinistra: anche in Italia era nato il bipolarismo!
E se c’è qualcosa che si può notare da questo breve ripasso, è che in tutti questi anni di cambiamenti e di trasformazioni rimane costante una parola: centro!
Del resto non era facile, dopo cinquant’anni di Dc, abbandonare un salvagente politico come quello rappresentato dal centro. In un passato non troppo lontano, il centrismo rappresentato dalla Dc e la sua vocazione alla mediazione e al compromesso ci hanno protetto dagli estremismi, chi non ricorda gli anni di piombo?

Sarà forse per questo che i suoi maestri e i suoi discepoli hanno attraversato indenni gli anni del trapasso tra la prima e la seconda repubblica. Hanno girato lo sguardo un po’ a destra e un po’ a sinistra senza mai perdere la rotta fino ai giorni nostri. Si sono ritrovati prima compagni e poi avversari, ma sempre confluendo verso il centro.

Su tutti, probabilmente il caso più emblematico è rappresentato dall’illustre Pier Ferdinando Casini, giovane ed emergente deputato democristiano della prima repubblica già dagli anni ottanta, capace di passare dal centro alla destra a fianco di Berlusconi, per poi oscillare qua e là fino ad approdare a sinistra (se di sinistra si può ancora parlare), sponda Partito Democratico dell’era Renzi.
Del resto sono stati tanti gli uomini politici, a volte personaggi noti ma assai più spesso anonimi deputati, impegnati nel corso degli ultimi due decenni in questo tipico gioco di ruolo tutto italiano chiamato “cambio della bandiera”, giocatori il cui fine ultimo è di bivaccare in parlamento una legislatura dopo l’altra col culo ben ancorato alla propria poltrona.
Da tempo ormai la gente l’ha capito. Ha capito che il mestiere della politica non significa agire per la cosa pubblica, casomai mettere in atto un progetto del tutto personale per acquisire uno status sociale privilegiato: la conquista del potere fine a se stesso. No signori miei, non si tratta del solito pensiero semplicistico da uomo qualunque, né di retorica “populista” (mamma mia com’è di moda questa parola!) come direbbe certamente la casta degli onorevoli. È una semplice osservazione della realtà.

Se ripercorressimo con coscienza critica il passato recente fino ai giorni nostri (parlo degli ultimi settant’anni, più o meno), avremmo ben chiaro nella testa chi sono stati i pochi, pochissimi politici che hanno lavorato per davvero per il bene collettivo (e non per tenersi ben stretti i privilegi conquistati). Lo hanno fatto con scelte spesso difficili, mettendo in gioco anche la propria persona, a volte facendo del bene al paese, altre volte commettendo errori. Ma tutto sempre in buona fede, è la storia a dirlo, non certo il sottoscritto. Da De Gasperi a Pertini, da Moro a Berlinguer, e pochi altri. Questi nomi, questi uomini hanno fatto la storia della nostra democrazia. E oggi? Che nomi abbiamo all’orizzonte? Quali sono i nostri esempi recenti? Ho provato a ripassarli tutti, a riguardarmi quest’ultimo ventennio di novità epocali in cui, dopo il crollo del muro di Berlino, si è formata una nuova Europa; in cui tutti hanno assistito in diretta all’attentato alle torri gemelle e al germinare di un nuovo conflitto tra nord e sud del mondo; in cui è nata la moneta unica europea per contrastare gli effetti della globalizzazione; in cui da circa dieci anni siamo piombati nella peggiore crisi economica che si conosca, in cui l’economia reale ha ceduto definitivamente il passo a quella finanziaria… Ebbene, non ne ho trovato uno. Un solo uomo politico che abbia avuto le capacità, le intuizioni e il coraggio di fare qualcosa di grande, di alternativo. Che magari possa essere ricordato dalle prossime generazioni e guadagnarsi il diritto di avere un capitolo tutto suo nei libri di storia del futuro (se ancora serviranno a qualcosa). Ho visto solo facce grigie, tutte uguali, tutte a dire sempre le stesse cose, sia a destra che a sinistra, tutti ad avallare politiche economiche imposte da altri, da coloro che hanno il vero potere e che non siedono nei parlamenti ma nei consigli d’amministrazione.

L’uomo della strada fa fatica a capire il perché adesso guadagni meno soldi che in passato, fa fatica a capire il perché non possa più avere un lavoro stabile, o perché i propri risparmi non siano più al sicuro da nessuna parte, o perché studiare non serva più a migliorare le proprie prospettive di carriera e nemmeno a realizzare i propri sogni per un mondo migliore. L’uomo della strada fa fatica ad accettare che chi prima era ricco oggi sia sempre più ricco e chi prima aveva il giusto reddito oggi abbia sempre di meno e rischi di perdere tutto.

E ora c’è qualcuno che avverte sulla stampa e in tv che il vero grande pericolo è il populismo!
Sono i dotti, gli intellettuali del pensiero unico liberaldemocratico, i portavoce della ragionevolezza, della pacatezza, del perbenismo, del dissenso moderato, delle idee progressiste purché non si sfori il debito pubblico. Questa nuova intellighenzia di buona famiglia che, interpellata nei salotti mediatici di ogni dove, si è fatta paladina di una tolleranza e di una solidarietà a senso unico, avallando l’esodo incontrollato di migliaia e migliaia di disperati d’oltremare, regalando loro una diversa disperazione lontano da casa e un nuovo odio verso chi li guarda errabondare lungo le proprie vie, intorno alle proprie case senza una meta e senza un perché. Certo, l’odio è diventato reciproco, ma cosa ci si poteva aspettare di diverso da chi è nato in mondi diversi, forzatamente e sbrigativamente messi assieme per attenuare quel vago senso di colpa tutto occidentale che da sempre tormenta la nostra classe politica di sinistra? Questa intellighenzia che confonde distrattamente (o dolosamente) il vero razzismo con la semplice paura infilandoli in un unico calderone e parla a sproposito di populismo. Questa intellighenzia che non ha mai messo piede in una fabbrica e che non ha proferito parola quando è stato smantellato lo stato sociale, quando in un lustro sono stati cancellati i diritti conquistati dai lavoratori in centocinquant’anni di lotte.

E proprio adesso, dopo l’esito ampiamente previsto delle elezioni di marzo, dopo la nascita tormentata e contrastata di questo strano governo, dopo l’isteria collettiva esplosa un po’ in tutta Europa per i fatti di casa nostra, dopo la conclamata incapacità del Pd di fare una seria e sincera autocritica per il proprio immane fallimento (forse perché troppo impegnato ad allertare l’Italia – e l’Europa – dell’imminente catastrofe che il nuovo governo si accinge a provocare), dopo che una recondita e inconfessabile sensazione ci ha portato a pensare che tutte le nostre opportunità di redenzione erano ormai perdute e che tanto valeva calare un ultimo jolly, tanto insperato quanto pazzo e incosciente…
Adesso, dicevo, si fa fatica a capire cosa ci sta girando attorno.

Si fa proprio tanta fatica a comprendere tutto ciò… Almeno io ne faccio parecchia, lo ammetto.
Poi che volete da me? Non ho certo io le risposte!
Non sono mica un intellettuale io… casomai, un semplice populista!

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Carlo Tassi

Ferrarese classe 1964, disegna e scrive per dare un senso alla sua vita. Adora i fumetti, la musica prog e gli animali non necessariamente in quest’ordine. S’iscrive ad Architettura però non si laurea, si laurea invece in Lettere e diventa umanista suo malgrado. Non ama la politica perché detesta le bugie. Autore e vignettista freelance su Ferraraitalia, oggi collabora e si diverte come redattore nel quotidiano online Periscopio. Ha scritto il suo primo libro tardi, ma ha intenzione di scriverne altri. https://www.carlotassiautore.altervista.org/


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