LA CITTÀ DELLA CONOSCENZA
La falsa coscienza di una società triste
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Mi piacerebbe che di fronte ai comportamenti devianti e violenti dei nostri bambini e giovani, compresa la componente femminile che pare non essere da meno, si rispondesse non solo con la medicalizzazione e la penalizzazione, ma anche procedendo a una potente quanto drastica disintossicazione della società degli adulti che ne è all’origine, comprese scuola e famiglia.
Intanto partirei dai termini “bullo” e “bullismo” per accogliere la sollecitazione dell’Accademia della Crusca, che ci invita a chiamare la cose come la nostra lingua madre ci ha insegnato anziché ricorrere sempre all’inglese. “Bullismo” è l’italianizzazione dell’anglo “bully”. Se “bully” è prepotente, bullismo in italiano è prepotenza. Dal punto di vista semantico e della comunicazione trovo molto più efficace “prepotente” e “prepotenza”. La denuncia del sopruso sull’altro mi sembra che esca con maggiore forza e non resti offuscata dalla nebulosità di termini come bullo o bullismo, che rischiano di desemantizzare la cosa in sé, come le vacche di Hegel che di notte sono tutte nere.
Coniare termini nuovi per fenomeni vecchi non aiuta a comprenderli meglio, anzi spesso succede che funzionano da distrattori. Chiunque sottomette a sé qualcuno è un prepotente e compie atti di prepotenza, come i tiranni, come i dittatori e ogni prepotenza trasforma chi la subisce in vittima. A volte si ha l’impressione che le campagne contro il bullismo e il cyberbullismo, il mobbing e lo stalking, tutti riconducibili all’area semantica del sopruso e della prepotenza, siano più finalizzate a farne fenomeni di costume utili a ingrassare convegni che a volerli combattere realmente.
Per evocare il titolo di un importante libro sul disagio degli adolescenti sarebbe il caso che avessimo il coraggio di prendere a mano “le passioni tristi” di questa società triste.
Sono passioni che datano con la storia dell’uomo, con i nostri riti sociali, di iniziazione o meno, dai quali neppure il progresso e le conquiste democratiche ci hanno aiutati a guarire. Non vi ricordano nulla i turbamenti dell’allievo Törless?
E allora leggete un po’ qui: «Cara maestra, è finita, finalmente è finita, non la scuola, ma tutta l’ansia che mi hai fatto provare, tutta l’avversione per lo studio che mi hai procurato, a volte perfino il rancore che ho sentito verso i miei compagni, a causa tua. Non so davvero da dove cominciare, sono talmente tante le cose per le quali vorrei “ringraziarti”: per tutte le volte che mi hai fatto sentire un incapace».
Sono le righe di una lettera che i bambini di una quinta classe elementare di Brindisi hanno scritto al termine della scuola alla loro maestra. Come definire questa lettera se non una denuncia di bullismo? Solo che il nostro di adulti è sottile, spesso istituzionalizzato, non ha la rozzezza, l’aggressività di chi dalla vita non è ancora stato sufficientemente raffinato.
Il tema è sempre quello denunciato da Foucault: sorvegliare e punire. E, guarda caso, che grande conquista del terzo millennio abbiamo compiuto: contro il bullismo e la devianza continuiamo a rispondere con il “sorvegliare e punire”. Meritiamo davvero un bell’applauso.
I soprusi, gli atti di prepotenza, le forme di violenza psicologica dei nostri giovani non vengono da lontano, ma purtroppo da molto vicino a loro.
Della logica del dominio è intrisa ogni nostra istituzione sociale, le piramidi, le gerarchie, il sopra e il sotto, le condotte di massa. Ordine e consenso richiedono sottomissione e nessuna società si reggerebbe se non fosse così; perfino Rousseau, quello dell’Emilio, lo sosteneva. Nessuna società che non sappia fondare se stessa su valori come la libertà, l’autonomia, la responsabilità.
Ma è necessario che libertà, autonomia e responsabilità si respirino da subito, fin dalla nascita, che tutto dell’ambiente che ci circonda sia coerente con essi, ne sia testimone fedele. Non lo sono certo le nostre scuole per come sono organizzate, per le loro pratiche: basti solo pensare che il sapere sistemato in materie lo chiamiamo “disciplina”, come la disciplina militare, come la disciplina per fustigare. Neppure le nostre famiglie sono da meno.
E se questa è la realtà, mentre cerchiamo di porre rimedio agli atti di bullismo compiuti dai ragazzi e dalle ragazze, figlie e figli di questa società bulla a sua volta, occorrerebbe che apprendessimo come fare per cambiare una società triste che produce passioni tristi. Perché noi ai nostri bimbi, ai nostri ragazzi non sappiamo insegnare la felicità e la gioia, ma solo le passioni tristi.
È il danno di credere, con buona pace di Freud, che l’Io sia inevitabilmente il prodotto del conflitto tra piacere e morte. Una traduzione psicanalitica della perenne lotta tra il bene e il male universalmente proposta dalle religioni.
Per favore prendiamoci cura di noi. Impariamo a educare i nostri piccoli da subito ad essere ciò che sono, a diventare ciò che desiderano, a essere e non a “dover essere”. E se le nostre famiglie, le nostre istituzioni educative, le nostre scuole non sono all’altezza di questo compito è giunta l’ora di cambiarle e di farlo in fretta.
Non si diventa bulli all’improvviso e non c’è niente di peggio dell’ipocrisia degli adulti che non vogliono ammettere i loro errori.
Intanto una cosa si potrebbe fare subito: una scuola coerente con le campagne contro il bullismo e il cyberbullismo dovrebbe iniziare da se stessa, facendo la sua prima rivoluzione, interrogandosi su come si può essere un luogo di apprendimento anche della gioia e della felicità di vivere. Per esempio, rovesciando quell’ordine che fino ad ora ha servito le passioni tristi, ponendo al centro l’apprendimento e il soggetto che apprende, anziché l’insegnamento e il soggetto che insegna. Spaventa? Non si può fare?
Allora teniamoci le passioni tristi se ai nostri giovani non siamo in grado di offrire neppure la passione di gioire.
