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massimo faggioli  Joe Biden e il cattolicesimo negli Stati Uniti è il titolo dell’ultimo libro scritto da Massimo Faggioli (2021), presentato in Biblioteca Ariostea lo scorso 28 maggio su iniziativa dell’ Istituto Gramsci e di Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.
Un libro pensato e scritto per il pubblico italiano – ha detto l’autore – ma che nel frattempo ha avuto richieste in corso di traduzione in inglese e francese.
Nella riflessione dello studioso ferrarese che insegna alla Villanova University negli Usa (Philadelphia), si intersecano diversi piani di analisi: Biden, cattolicesimo e Chiesa statunitensi; Biden-papa Francesco e Vaticano; e infine papa-Santa sede e cattolicesimo-Chiesa Usa.
Temi fortemente intrecciati, ma che vanno anche presi singolarmente perché ciascuno rappresenta una variabile sulla complicata scacchiera del mondo cattolico oltreoceano, per il quale è difficile fare previsioni sulle mosse future e sui relativi esiti.
Il motivo per il quale è utile mettere a fuoco la scena cattolica statunitense è perché si tratta della Chiesa più grande e influente e destinata, quindi, ad avere un ruolo ancora trainante su scala globale.

Le elezioni presidenziali del novembre 2020 hanno visto prevalere il candidato democratico Joe Biden, secondo presidente cattolico dopo John Kennedy, sul repubblicano Donald Trump. Per tanti aspetti non è stata una tornata elettorale qualunque. A cominciare dal fatto che Trump fino all’ultimo ha cercato di contestare l’esito del voto, affermando ripetutamente che l’elezione era stata rubata dai democratici.
Una tensione crescente, culminata il 6 gennaio con la protesta inscenata dai sostenitori del presidente uscente a Washington, dove nel palazzo del Campidoglio era prevista una seduta congiunta di Camera e Senato per ratificare l’elezione di Joe Biden.
Il bilancio di cinque morti e centoquaranta feriti la dice lunga se sia stata una farsa o qualcosa di molto peggio. Ne parla diffusamente il direttore de Il Mulino. Mario Ricciardi, nell’ultimo numero del trimestrale da lui diretto (1/2021), il cui titolo, Guarire le nostre democrazie, ha tutta l’aria di essere un autorevole e inquietante campanello d’allarme.

Ma è sulle caratteristiche del voto cattolico che si concentra l’attenzione di Massimo Faggioli.
Un voto spaccato in due – fra democratici e repubblicani – indice di una radicalizzazione che è in primo luogo culturale e teologica.
Una polarizzazione tra posizioni, la cui sponda Trump ha ripetutamente cercato e alimentato per alzare il livello di scontro, a sua volta funzionale alla sua azione politica.
La narrazione del complottismo e del cospirazionismo ha contribuito a dare un volto ai nemici del popolo americano e, allo stesso tempo, a rafforzare il programma di America first. Una sorta di reazione alla fine del secolo americano, facendo leva sull’orgoglio nazionalista, suprematista e nativista e sul mito di una nazione la cui missione globale è intimamente sentita come iscritta nel piano divino.
Così The Donald è stato visto come il nuovo Costantino, o Ciro di Persia che permise il ritorno del popolo ebraico nella terra promessa.
Un disegno in cui motivi politici (con forti tinte illiberali) e religiosi si cercano e si alimentano a vicenda in un tempo scosso dalle paure, nel quale schiere consistenti di consenso – specie le più fragili e indebolite – trovano rifugio nella nostalgica e securitaria riproposizione di un prestigio minacciato dal complotto di un presente e futuro ricchi d’incognite.

Un celebre saggio de La Civiltà Cattolica (14/2017) puntò il dito sull’ “ecumenismo”, inteso come congiunzione tra fondamentalismo evangelicale e tradizionalismo cattolico.
Se, come dice Faggioli, quel disegno può dirsi fallito su scala globale (l’attivismo in terreno europeo dell’ex capo della strategia della Casa Bianca, Steve Bannon), con la vittoria del cattolico Biden l’analogo tentativo può dirsi stoppato sulla scena statunitense, ma non definitivamente sconfitto.
I motivi sono profondi e fanno leva su un lungo tragitto teologico e pastorale interno alla Chiesa Cattolica, in un arco di tempo che percorre i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI (1978-2013).
Le nomine dei vescovi, molti dei quali ancora al loro posto, e la prolungata insistenza di un magistero sui temi etici e sulle questioni pro-life (aborto, principi non negoziabili, omosessualità), hanno di fatto favorito il transito di Chiesa e cattolicesimo statunitensi da posizioni conservatrici verso un vero e proprio tradizionalismo. Il risultato è la radicalizzazione di uno scontro che progressivamente toglie spazio all’area più dialogante, statisticamente sempre più occupato da chi cerca di proposito gli spigoli e gli argomenti della sfida.

Parte significativa di vescovi e clero – sulla scorta delle culture wars e delle wafer wars (ossia la negazione dell’ostia eucaristica ai democratici Kerry e Biden per le loro posizioni sull’aborto) – se da un lato non hanno nascosto le loro simpatie per Trump, sul versante ecclesiale da tempo manifestano apertamente la loro irritazione verso l’attuale pontefice, che di fronte all’urgenza dei tempi si presenta con le armi spuntate della misericordia, del dialogo e della tenerezza.
Questa contrapposizione tra due opposti, afferma Faggioli, “è entrata nell’anima del cattolicesimo Usa”, al punto che sono usate con frequenza espressioni come “scisma morbido” e “nuova vandea”.
E così, in terreno religioso il partito di Dio resta quello repubblicano, mentre in quello specifico cattolico si rafforzano le posizioni che, in nome della Tradizione, arrivano a mettere in discussione persino la legittimità di papa Francesco (l’accusa di sedevacantismo), per un successore di Pietro che finisce per mettere in discussione l’identità cattolica. Un pontificato, quello dell’argentino Bergoglio, colpevole di decentrare l’asse geopolitico e pastorale della Chiesa dall’anglosfera e dall’Occidente, verso le periferie del mondo. Il tutto sulla lunghezza d’onda del concilio Vaticano II, parimenti messo sul banco degli imputati dal fronte tradizionalista, che per la prima volta arriva a contestarne non solo interpretazioni e aperture, ma gli stessi documenti.
Nella tregua rappresentata dalla vittoria del settantottenne Biden (l’ultimo dei cattolici adulti, lo definisce Faggioli) rispetto al clima da culture wars, è però ancora difficile dire cosa ci si può aspettare nel rapporto con papa Francesco.
Se per un verso la Casa Bianca potrà trarre ragionevole vantaggio da un raffreddamento della temperatura sulle questioni etico-sessuali sulla sponda vaticana, su questo stesso fronte papa Francesco dovrà continuare a usare la massima prudenza per salvaguardare gli equilibri interni ecclesiali sempre più delicati.
D’altro canto, permangono non pochi punti di incertezza nel rapporto Chiesa di Roma-Biden sul versante del magistero sociale (le encicliche Laudato sì e Fratelli tutti), se si considera che papa Francesco sta mettendo nel mirino nella sua essenza un modello di sviluppo (per sette volte definito irresponsabile nella Laudato sì), che tuttora rappresenta il principio organizzativo del modello geopolitico americano per antonomasia di libertà, ricchezza, sviluppo e benessere.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).


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