La crisi, la vecchia politica, il nuovo governo Conte: che brutta pagella
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Tutto quello che non avreste mai pensato possibile e che invece è realmente successo. Ecco la storia della crisi di governo più lunga della Repubblica italiana raccontata punto per punto, con tanto di voto ai protagonisti e alle loro imprese.
Avvertenza ai lettori: nell’ultima settimana ho cominciato e cancellato questo articolo cinque o sei volte. Colpa dei continui corteggiamenti, dichiarazioni, posizionamenti, svolte, incontri, scontri, contratti, prime bozze, ultime bozze, ultimissime bozze, appelli alla piazza e voltafaccia che hanno punteggiato la più lunga crisi di governo della nostra Repubblica. Scrivevo una cosa al mattino e a mezzogiorno era già carta straccia.
Ho deciso di riprovarci, dopo che Cottarelli ha salutato (e tutti a fargli i complimenti: “Ma che signore, che stile quel Cottarelli con lo zainetto sulle spalle”), dopo che l’avvocato Conte con voce un po’ malferma (ma era emozionato o semplicemente atterrito dall’arduo compito?) ha letto/annunciato la lunga lista dei ministri del Primo Governo Giallo-Verde: potevo finalmente mettermi a scrivere. Intendiamoci, non qualcosa di duraturo, di definitivo – ché nelle prossime settimane e mesi ne vedremo di belle e di brutte, di cotte e di crude – ma insomma, almeno dal 1 giugno qualcuno bene o male proverà governarci.
Seconda avvertenza ai lettori: questo che segue non è propriamente un ponderato commento politico. Lo stile? Un strano tentativo, un incrocio tra un editoriale domenicale di Eugenio Scalfari e le pagelle sportive di Gianni Mura. Un elenco, ovviamente incompleto, di temi e protagonisti, con a fianco il voto raggiunto. E, visto che stiamo entrando in tempi di esami, vedrete che siamo assai lontani dalla sufficienza e dalla promozione.
Terza Repubblica: voto 4. Perché questa storia ce l’hanno detta e ripetuta di continuo durante 87 giorni (e sicuramente continueranno), ma abbiamo capito benissimo che quella che andava in scena era l’identica trama della Prima Repubblica. Le stesse furbizie, gli stessi avvertimenti trasversali, il dire Bianco al mattino e giurare Nero alla sera, gli stessi identici forni (aperti, chiusi, riaperti, richiusi) tipici della ingloriosa era democristiana. Per ora siamo fermi alla Prima Repubblica. Con una sola variante: la perdita della riservatezza (di un minimo di mestiere e spesso della decenza), cioè l’avvento dell’impero veloce e volgare di twitter, di facebook, degli hashtag applicati alla lotta politica.
Contratto di governo: voto 4. Stiamo parlando della “grande novità”. Molte bozze, aggiunte, cancellature, ingenuità, sparate, ritirate, e nessun numero concreto (le coperture di spesa, le grandi assenti) per arrivare a 42 pagine controfirmate in calce: un contratto privatistico tra i due leader di Lega e 5 Stelle. “Un ottimo lavoro” a detta loro. Salvini: “Dentro il Contratto ci sono tutti i nostri obiettivi”. Di Maio: “Abbiamo portato al governo il nostro programma elettorale”. Naturalmente non è proprio così. Il contratto, invece di costituire una mediazione, è una sommatoria confusa di impostazioni e promesse spesso divergenti. E tanta vaghezza sui punti dolenti: Europa, Euro, Deficit, Grandi Opere, Immigrazione, Superamento Legge Fornero.
Insomma, più che un piano di governo, il contratto è un mix confuso dei due rispettivi programmi elettorali. I due garanti (Salvini e Di Maio), non a caso Vicepresidenti del Consiglio, hanno apparecchiato e imbandito il la tavola (tanta roba!) e l’hanno messa in tasca all’avvocato Conte. Saranno loro i padroni del “governo del cambiamento”, non il Presidente del Consiglio come vuole la Costituzione. E se i due galli non si troveranno d’accordo? Si rivolgeranno al garante previsto dal contratto? Beh, in ogni caso ce lo comunicheranno con due righe di twitter.
Governo di cambiamento: voto 4. Uno slogan, niente di più. Al principio, appena dopo le elezioni del 4 di marzo, faceva un certo effetto, suonava bene. Ma alla fine, quando al Quirinale Conte ha presentato l’elenco dei ministri, non se l’è sentita di ripetere la formuletta. Del resto, i “nuovi politici” non sono sembrati diversi dalla produzione in serie della classe politica italiana. Dediti all’eterna propaganda, sicuramente più chiacchieroni dei predecessori (anche se Matteo Renzi era un bel campione), più ingenui e inesperti (Di Maio), o più tattici e comizianti (Salvini), ma perfettamente in linea con il peggior costume politico del Belpaese. Ricordate? “Il mio interesse è solo il bene degli italiani”, “Sono disposto a fare un passo indietro”, “Bisogna che (un altro naturalmente) faccia un passo a lato”, “Non ci interessano le poltrone, vengono prima i contenuti”.
Governo del cambiamento? Forse il voto giusto sarebbe N.S. (non classificato). Governo rimandato a dopo l’estate, ma con poca speranza di passare l’esame di riparazione.
Di Maio: voto 3. Dilettante allo sbaraglio, è in assoluto quello che le ha sparate più grosse. E ha rischiato grosso. Designato dominus del Movimento, lo ha trasformato in pochi mesi nel suo “partito personale” (superando il fondatore e Kingmaker, ma inaugurando uno stile compito, perennemente in giacca e cravatta). Dopo una campagna elettorale passata a corteggiare e blandire “i padroni dell’Europa e dei mercati”, la sbornia di voti ricevuti il 4 marzo lo ha portato dritto dritto al delirio di onnipotenza. “Il Presidente del Consiglio? O io o nessuno!” ha ripetuto tutti i santi giorni. “E’ un momento storico!”. Intanto ha tentato di svaligiare tutti i forni a disposizione (trovandoli chiusi o senza pagnotte). Non pago, ha cercato di scavalcare a destra il suo alleato: più sovranista della Lega, più anti-euro di Salvini.
Infine, il suo capolavoro: un tentato (e quasi riuscito) suicidio politico: la richiesta (senza basi giuridiche, senza nessuno sbocco) di messa in stato d’accusa del presidente Mattarella. In calo nei sondaggi, criticato apertamente dai suoi colleghi parlamentari, sommerso dai mugugni via twitter e facebook (chi di spada colpisce…) ha fatto una improvvisa inversione a U. Per salvare la pelle è andato a Canossa dal Presidente della Repubblica. Ha ritirato fuori dal congelatore Conte. Ha implorato il permesso a Salvini per spostare dall’Economia lo scomodo Savona. In cambio la Lega si è preso la maggioranza dei ministeri di peso e la guida di fatto del governo.
Salvini: voto 90. Ho messo quel numero perché “la paura fa Novanta”. Parlo della mia paura, e quella di tanti (spero siano tanti) italiani. Non a caso a Salvini gli elogi più sperticati, anche in queste ultime settimane, gli sono arrivati da Marine Le Pen e Nigel Farage. E’ Lui il padrone di casa, non solo del cruciale e muscolare Ministero dell’Interno, ma di tutto il governo. Il vero conte del castello governativo è Salvini, mentre l’avvocato Conte farà più o meno il maggiordomo.
Ovvio, come politico, come tattico, comunicatore, comiziante, arringatore e capopopolo Matteo Salvini si è dimostrato un cavallo di razza e si merita invece un 10 con lode . Lo hanno capito tutti. E lo ha capito anche lui. Sarà lui a dare la linea, e se qualcuno gli metterà il bastone tra le ruote, farà crollare tutto il castello. Darà la colpa a Di Maio, ai Poteri Forti, all’Europa e andrà alle elezioni a cuor leggero visto che i sondaggi arrivano a stimare la Lega sopra il 30%. Ha forse un unico problema – e la parabola di Matteo Renzi dovrebbe insegnargli qualcosa – che l’eccesso di esposizione mediatica può stancare il pubblico.
Chi sceglierà Matteo Salvini come alleato del futuro? L’usato sicuro Berlusconi e quindi il Centro Destra oppure Il Movimento Pentastellato, novello partner di governo? Salvini non ha fretta di scegliere. Intanto il vento gonfia le sue vele.
Se però la Lega alla fine decidesse per la seconda opzione, la mia paura sale. Si impenna come lo spread. Penso a Ferrara, alle elezioni della primavera 2019, a un governo locale stanco e a una sinistra senza un progetto e ripiegata su se stessa. Ma il fosco orizzonte cittadino merita un approfondimento a parte.
L’avvocato e Premier Giuseppe Conte: voto 5. Un assoluto Carneade, un vaso di coccio in mezzo a due vasi di piombo, trovate voi l’immagine più calzante. La sua colpa non è quella di aver taroccato il curriculum – in questo anzi fa tenerezza, mi sembra “un italiano vero” – ma aver accettato (forse per troppa ambizione, ha confessato suo padre) una mission impossible. Come diavolo fai a guidare una macchina se al posto di guida c’è seduto un altro? No, nessuno ce la farebbe, nemmeno l’unico, autentico avvocato Conte, nemmeno quel genio di Paolo Conte.
Mattarella: voto 5. Perché è vero che ha avuto tanta ma tanta pazienza. E secondo il dettato costituzionale, “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio e su proposta di quest’ultimo gli altri ministri”, ha quindi voce in capitolo e può chiedere (molto sottovoce) e ottenere dal premier incaricato che venga cambiato o spostato un ministro indegno o inadatto (l’hanno fatto diversi suoi predecessori), ma Mattarella ha fatto qualcosa di più, di diverso e di grave. E’ entrato a gamba tesa, ha motivato il suo rifiuto al professor Savona con una motivazione tutta politica: i mercati, l’adesione all’Europa, la difesa dell’euro, il pericolo per i risparmi e i mutui degli italiani.
Un arbitro non può entrare in campo, pena l’appannamento del suo ruolo. Certo, Mattarella non è un traditore della Repubblica (infondata, ridicola e risibile la richiesta di impeachment), ma ha comunque esorbitato dalle sue funzioni. Senza contare che – ma sempre in via riservata, a tu per tu con il presidente incaricato – Mattarella avrebbe fatto meglio a opporsi aquello che è stato il vero strappo costituzionale, quello cioè di un governo diretto (e governato) dall’esterno, da due leader politici e dal contratto da loro siglato, non da un Presidente del Consiglio in piena autonomia.
Partito Democratico: voto 4 meno meno. Un voto meritato in campagna elettorale e confermato nei tre mesi successivi. Diviso, rissoso, opaco o addirittura oscuro, alieno ad ogni analisi autocritica, incapace di parlare ai suoi iscritti e agli italiani. Con un ex segretario ancora padrone dei gruppi parlamentari e della maggioranza della Assemblea e della Direzione. Con un reggente che campa alla giornata, in attesa di essere silurato. Con tanti capi e capetti con poco coraggio e pochissime idee. Ma di che parlerà il congresso?
Il partito trova prima l’unità sull’opposizione dura e senza paura. Poi sul voto a favore del governo tecnico di Cottarelli. Poi sull’astensione a Cottarelli: giusto per non rimanere ancora più soli e abbandonati. Poi per fortuna arriva il governo Conte e si può tornare all’opposizione. La base del partito? “Percossa e attonita” mi verrebbe da dire.
E’ brutto ammetterlo, ma il PD sembra vivere uno stallo infinito. Non è solo fuori dai giochi, da ogni gioco, ma è incapace di scegliere a quale gioco giocare, quale idea di Italia e di Futuro promuovere
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Carlo Calenda; voto 2. Potrei dare i voti a tanti altri esponenti del Centrosinistra, tutti ampiamente sotto la sufficienza; un bel 3 a Renzi, un 3 all’ex giovane turco Orfini, un 3 ½ al fido Guerrini, un 3 anche al democristiano Franceschini, un 4 al timido Orlando, un 4 ½ a Del Rio ma solo perché sembra una brava persona.. Un 4 a Grasso, Un 4 anche alla Boldrini, un 3 a D’Alema. E Gentiloni? Diamogli un 5+, solo per la fatica degli ultimi 15 mesi.
Basta, non vi annoio oltre, voglio concentrarmi su Calenda. Sarebbe lui, l’ex Ministro per lo Sviluppo Economico, il nome nuovo, l’astro nascente, il prossimo jolly da giocare in parlamento e nel risiko elettorale. Nel partito non tutti credono in Calenda. Ma non è importante: è lui che ci crede fermissimamente e tanto basta al suo ego. Per questo Calenda lo incontri ovunque e a ogni ora del giorno e della notte: cinguetta sui social, partecipa a convegni ed eventi, rilascia interviste a raffica ai giornali, appare su tutti i canali dell’orbe televisivo. Ha solo un’idea da comunicare (lui la trova strepitosa): smontare il partito (a cui si è iscritto il mese scorso) e fare il “Fronte Repubblicano”, europeista e neoliberista. Il Fronte Repubblicano è la meravigliosa macchina da guerra (sappiamo com’è finita), il grande motore per rianimare il fronte degli sconfitti. Qualcuno dovrebbe dire a Calenda che la sua idea è vecchia e perdente, che non si può confondere il 2018 con il 1948.
Ma Calenda insiste – per questo merita un bel 2 – continua a sognare “un fronte ampio” (altra idea nuovissima!), una destra in doppiopetto che si contrapponga alla destra in jeans, felpa e megafono dei neopopulisti. Qualcuno dovrà spiegarglielo: con una formazione e un mister del genere non c’è partita, si perde di goleada.
N.B. Per motivi di spazio e di tempo l’autore si scusa con i lettori e con i leader rimasti senza pagella.
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Francesco Monini
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