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12 Maggio 2017

Quando i rifugiati eravamo noi

Tempo di lettura: 5 minuti


Immigrati, migranti, rifugiati, profughi, richiedenti asilo: una nomenclatura rigorosa che richiede un distinguo per sentirsi ed essere rigorosamente ‘politically correct’. Puntualizzare, specificare, attribuire la categorizzazione precisa prevista sembra essere prioritario per non far torto a nessuno e non sconfinare nell’impreparazione, nella gaffe. Ma davvero deve essere così? Quello che emerge è il fenomeno nel suo insieme: una grande marea di persone che approdano in Italia per transitare, rimanere, ripartire, attendere, chiedere, sperare, tentare, arrendersi, osare, disilludersi, a volte ribellarsi. Che si sia d’accordo o meno. E’ una realtà di fatto quotidiana, con riscontri di cronaca a scansioni regolari su cui si scatenano opinioni contrastanti, riflessioni disparate o disperate.

L’elemento umano dovrebbe superare le etichette, nonostante l’aspetto legale richieda una definizione precisa, anche perché chi è propenso al rifiuto e alla discriminazione tout court non sta certo a guardare lo status, come chi è pronto all’accoglienza e all’accettazione non lo fa con un ‘tu sì e tu no’. Forse merita ricondurre il fenomeno migratorio all’interno di un quadro più vasto, che faccia riferimento a quelle pagine di storia destinate all’archiviazione, ma meritevoli di menzione perché non bisognerebbe mai scordare quello che siamo stati. La figura del ‘rifugiato’ emerge per la prima volta nei risvolti della Prima Guerra Mondiale, quando un conflitto di quelle proporzioni va a creare situazioni di pesante emergenza e le nazioni interessate si devono porre il problema della gestione di masse costrette agli spostamenti forzati. Le zone dei fronti di combattimento, furono evacuate e si assistette al triste esodo in numeri massicci di interi nuclei familiari, villaggi, regioni, con il conseguente spopolamento di territori e sradicamento dal proprio habitat. Italiani, austriaci, polacchi, boemi e moravi ma anche belgi, serbi e gli armeni furono interessati a un’evacuazione senza precedenti e senza distinzione di sorta. Erano quelle popolazioni che più di altre subivano il grande conflitto, costituite prevalentemente da donne vecchi e bambini perché gli uomini, quelli abili, erano al fronte.

I numeri sono il dato significativo delle proporzioni di questo fenomeno: 1.000.000 di belgi rifugiati in Olanda, 250.000 in Germania; 1.000.000 di serbi, 1/3 della popolazione, costretti a lasciare le proprie case. 75.000 trentini, 150.000 friulani delle valli dell’Isonzo e del Carso furono convogliati verso nuove destinazioni; 632.000 sudditi italiani furono costretti a partire dalle provincie di Belluno, Udine, Vicenza, Treviso per essere collocati in modo sparso altrove, all’interno e all’estero, nei campi profughi della Boemia, Moravia, Stiria e Bassa Austria. L’ordine di evacuazione entro 24 ore, l’attesa del treno, il viaggio, i controlli delle commissioni di ispezione, l’arrivo e la sistemazione provvisoria, lo smistamento e la destinazione finale. Una via crucis per interminabili file di esseri umani. Un bilancio molto pesante. ‘Città di legno’, questo era il nome attribuito ai campi di accoglienza che aumentavano di dimensioni man mano che arrivavano i convogli con gli sfollati. Si affaccia alla storia una prima immagine di lager, anche se quella più conosciuta sarà un’altra ben più terribile questione.

I più vasti Barackenlager furono quelli di Braunau e Mitterndorf. Quest’ultimo nasce in un piccolo villaggio a 25 km da Vienna, 150 abitanti, una chiesetta e una bottega. Nel 1914 cominciano ad arrivare i profughi galiziani e polacchi evacuati dalle linee belliche all’avanzata dei russi. Nel 1915 diventerà rapidamente una vera e propria città di baracche fondata sull’emergenza e la precarietà, 12.000 esseri umani di ogni provenienza, stipati in 280 per baracca. Nella cittadella veniva fornita assistenza medica ai malati ma per numerosi bambini non c’era molto da fare perchè minati e provati dalle condizioni di indigenza e debilitati dalle malattie infettive morivano irrimediabilmente. Era una città artificiale suddivisa rigorosamente in blocchi, una cucina ogni 4 baracche, una lavanderia a vapore, opifici e laboratori, magazzini, la scuola, la farmacia, gli ambulatori, l’ufficio postale e la chiesa, luogo religioso e culturale dove era possibile coltivare e mantenere in vita le tradizioni di ciascuna etnia. Per ogni internato era previsto un sussidio di 90 centesimi al giorno più la copertura dell’assistenza sanitaria e il vitto. Una gestione difficile su un così elevato numero di presenze. Alcide de Gasperi, in un suo discorso al Parlamento di Vienna, si pronunciò sulla condizione dei profughi, lamentando come il sistema li avesse isolati. Chiese che potessero liberamente scegliere tra la permanenza nelle baracche e una libera colonia; sottolineò l’importanza che i campi fossero organizzati in modo che gli sfollati potessero contare su una rappresentanza sulla base di quella dei comuni. Chiese, soprattutto, che il sussidio fosse aumentato e le condizioni di vitto migliorate. Un tentativo che non ebbe molto seguito, interrotto dalla fine della guerra, lo smantellamento delle città di legno e il rientro nelle proprie terre da parte della maggioranza dei profughi. Un’immagine storica che acquista ancora più significato se si considera il fenomeno attuale.

La Storia continua: si scappa dalla fame, dalle carestie, dalla guerra ora come allora anche se il quadro attuale differisce per modalità, impatto e conseguenze. I migranti percorrono la rotta dei Balcani (attualmente interrotta per le barriere che molti stati, come Ungheria, hanno eretto) e la rotta del Mediterraneo per approdare in Europa. Una road map mutevole, soggetta a variazioni e cambiamenti ma sempre attiva. Ogni minuto, secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, 24 persone migrano: il 51% sono minori, per legge inespellibili, nel 2016 erano 25.846, dal 1 gennaio ad oggi sono 5551. Le nazionalità dichiarate allo sbarco dimostrano che i Paesi di provenienza sono nell’ordine decrescente: Nigeria, Bangladesh, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Marocco, Mali, Eritrea… Una grande rappresentanza di Stati africani, alcuni in guerra civile, della cui situazione conflittuale sappiamo poco o non ne parliamo. La Germania risulta essere il Paese più richiesto dai migranti e su 181.436 approdi in Italia nel 2016, solo poco più di 70.000 sono rimasti sul nostro territorio. I richiedenti asilo vengono inseriti in un programma di ricollocamento, sceglieranno il Paese dove poter andare e la loro richiesta dovrebbe essere valutata nell’arco dei 4-8 mesi in attesa del consenso del Paese richiesto. Attualmente le persone coinvolte nel ricollocamento sono 8876.

Dove trascorreranno questo periodo? Nel 1915 i Barackenlager austriaci fornivano rifugio agli sfollati tra disagi e difficoltà; oggi i campi profughi accolgono i rifugiati superando spesso la soglia numerica prevista tra non minori problemi. Un sottile filo rosso, dunque, che lega la storia di popoli ed epoche diverse, che dovrebbe rammentarci la nostra stessa storia. Per dirla con Churchill, “ Più puoi guardare indietro, più puoi guardare avanti”.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).


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