È condizione d’ogni esistenza iniziare e finire, migrare tra questi confini da un prima a un dopo, da uno spazio all’altro, da un’assenza a una presenza, da un vuoto a un meno vuoto. Difendiamo i nostri confini non è l’appello ad un presidio geografico, quanto piuttosto a conservare i propri ambienti psicologici, a partire dalle tradizioni, i territori culturali delle nostre nascite e delle nostre morti, nulla di fisico, ma i recinti dei nostri luoghi interiori, con i materiali immateriali accumulati nel tempo.
Non c’è spazio per fare “luogo”, non ci sono spazi da condividere né quelli pubblici né quelli privati, né i luoghi di incontro né i luoghi della preghiera. Ci sono solo i corpi che ci appartengono a baluardo dei nostri recinti interiori.
Neghiamo lo spazio fisico per difendere i nostri spazi psicologici. Temiamo che i luoghi del nostro spirito possano cedere all’urto di chi fugge dai “non luoghi”, da territori inospitali, incapaci di accogliere le esistenze, di contenere i propri recinti interiori. Aiutarli a casa loro è problematico, perché casa loro, per ogni esistenza degna di questo nome, è un luogo che non c’è.
Il confine non è il luogo della separazione, dello iato, è al contrario il punto dell’incontro, lo spazio per guardarsi in volto, per mettere insieme i propri fini: il cum-finis dei latini.
Il confine è l’intersezione dell’entrare e dell’uscire, dell’andare e del venire, la regione delle contaminazioni, la contrada del parlarsi e del conoscersi, la zona della accoglienza, il termine d’ogni distanza. Il confine è valico da a per, è varco, è l’approdo della libertà di spostarsi.
Proprio per questo chi teme il riconoscimento dell’altro pone i divieti, alza i muri e le barriere di filo spinato.
Chiudere i porti è impedire di giungere ai nostri confini, al luogo in cui le esistenze si incontrano e possono guardarsi negli occhi. Perché come scriveva Benjamin: “nello sguardo è implicita l’attesa di essere ricambiato”. È questo che occorre evitare, è necessario impedire che la massa indistinta dei migranti si faccia umanità.
La società liquida si liquefà per la fatica di stare insieme, dell’essere comunità, la comunione umana ci è divenuta grave da reggere, ogni giorno mette a repentaglio le nostre individualità, i nostri soggettivismi, i diritti dell’io, le sue ragioni, i suoi pensieri, le sue radici radicate, le identità minacciate da identità disperate che cercano se stesse, in fuga dai non luoghi perché luoghi di annullamento.
E allora si mettono in campo primogeniture, diritti di prelazione, gerarchie storiche e geografiche con cui ogni tribù difende il suo territorio dall’occupazione dell’altro.
Ai confini si comunica, si mette in comune, la parola si fa sociale, servizio e valore, divulga pensieri e sentimenti.
Se i confini si cancellano, si tolgono di mezzo per innalzare barriere invalicabili, muri, le paratie dell’isolamento, anche il parlare viene meno, il trasporto della parola cede all’antiverbo: l’infrazione, lo scontro, l’angheria, l’offesa e la minaccia. La verità si muta in menzogna e la menzogna si vende per verità.
L’uomo perde la socialità, il suo essere animale sociale, snatura se stesso, la sua storia, la sua esistenza. Mentre ritiene di salvaguardare i propri recinti interiori precipita verso la loro decomposizione, procede a demolire la sua storia e le ragioni delle sue geografie territoriali e culturali. Ai confini non si possono sostituire le sanzioni, le chiusure, negare agli altri il viaggio significa negarlo a se stessi.
La nostra liquefazione è in corso, non solo l’ambiente snatura, ma anche la nostra umanità. La mutazione procede per cancellazioni di ciò che ci ha resi umani. Umani non siamo nati, umani siamo divenuti, la nostra umanità ce la siamo costruita e ci è costata milioni di anni della nostra storia. Basta poco a dissiparla, lo sappiamo da tempo. Le individualità che rivendicano la primazia senza sociale, senza una comunità che le contenga e che consenta loro di essere, sono monadi svuotate della “substantia” umana.
Il mondo è la nostra rappresentazione, il mondo è la nostra volontà, per dirla con Schopenhauer, il mondo esiste per noi.
Inseguire l’illusione di difendere i propri territori materiali e immateriali, rinserrandosi in essi, comporta la negazione del mondo, scegliere di dissociarsi dalla propria umanità, avviarsi verso una metamorfosi kafkiana, tutti ridotti a bacherozzi a cui la pancia comanda, vittime di se stessi e del proprio fallimento.
Dalla società liquida alla società liquefatta, il solo verbo legittimo è digitale, gli unici confini che è lecito varcare sono quelli consentiti da Google, le sole migrazioni ammesse, quelle delle navigazioni in rete.
Privo di volontà, il genere umano si va liquefacendo nel virtuale, ormai incapace di vivere e affrontare un reale sempre più complesso, ha ceduto alle tre doppia vu la rappresentazione del mondo.
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Giovanni Fioravanti
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