LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Tra benedizioni e società civile a scuola muore la laicità
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Mentre a Parigi si va a scuola di laicità, a Bologna la laicità della scuola necessita di una sentenza del Tar per essere tutelata. Ma, come si sa, “Parigi val bene una messa”; così l’Ufficio Scolastico Regionale ha affidato all’Avvocatura di Stato il compito di vagliare le possibilità di un ricorso contro la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale che tiene lontana dalle scuole la benedizione pasquale.
È come dire che lo Stato, laico per Costituzione, fa causa contro se stesso e la propria laicità. Schizofrenia istituzionale? Disturbo della personalità statale? Non c’è da stupirsi se non siamo un paese normale.
I sostenitori della benedizione delle aule scolastiche hanno deciso che, se l’aspersione d’acqua benedetta non può essere compiuta all’interno dell’edificio scolastico, si procederà comunque con il rito all’esterno, dal marciapiede antistante la scuola.
Viene da chiedersi cosa aggiunga o cosa tolga alla scuola la benedizione pasquale. Forse rende più intelligenti alunni e alunne, forse li preserva dai pericoli di un crollo, considerato lo stato della nostra edilizia scolastica, chissà. Per non dire delle profonde perplessità sul valore formativo per bambini e adolescenti, chiamati a fare da pubblico a un rito che nulla ha da invidiare alle antiche rogazioni nelle campagne.
La senatrice Pd Francesca Puglisi dichiara: “Non credo che sia la benedizione a violare la laicità dello Stato”. E il parroco che avrebbe dovuto impartirla sostiene che la benedizione pasquale non è un rito religioso, ma una tradizione civile del nostro popolo.
A questo punto verrebbe da chiedersi cos’è dunque laico e cosa religioso, cosa razionale e cosa irrazionale. Ma soprattutto perché, a Natale e a Pasqua, la scuola debba essere sempre oggetto di polemiche religiose spacciate per tradizioni civili che non offenderebbero la laicità dei laici.
Ora bisogna essere davvero anime belle per non voler vedere strumentalità in tutto questo.
Nella nostra società, sempre più secolarizzata e sempre più multietnica, certi credenti si sentono minacciati da quanti praticano la propria religione con una coerenza che loro hanno perduto ormai da tempo. Di qui la risposta in difesa: affermare la propria identità ricorrendo alla tradizione, alle forme esteriori di una fede che non ha più radici nella vita interiore delle persone.
Per legge sono i Consigli di Istituto che nei loro regolamenti devono prevedere le condizioni per concedere l’uso degli spazi scolastici in orario extrascolastico. Non mi risulta che rabbini, imam o pastori protestanti abbiano mai fatto richiesta d’uso delle aule scolastiche per le loro funzioni religiose, perché i preti sì? E perché solo per la benedizione pasquale e non tutte le domeniche per la messa?
È evidente la volontà di portare la scuola su un terreno molto pericoloso. In tutto questo c’è più uno spirito di crociata, più che di pietà religiosa.
Lo esprimono chiaramente i promotori delle benedizioni scolastiche, chiedendosi perché le moschee sì e le benedizioni no, paventando il rischio di dover cancellare le chiese per non disturbare i musulmani, oppure che sia impedito ai loro figli di sentirsi italiani e cristiani anche a scuola, fino a vedere calpestata la propria religione.
Eppure la sentenza del tribunale amministrativo emiliano romagnolo, nel suo buon senso, non solo pare laica, ma direi anche cristiana. Non fa altro che affermare come il principio costituzionale della laicità non significhi indifferenza rispetto all’esperienza religiosa, ma comporti piuttosto equidistanza e imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.
Questi signori della benedizione ‘prêt à porter’, che si scandalizzano delle madrase – le scuole coraniche altrui – non si scandalizzano che nelle nostre scuole statali, pubbliche e aconfessionali, si manipolino le menti dei più piccoli, si sa più assorbenti e plasmabili, a partire dalla scuola dell’infanzia, con la narrazione confessionale della religione cattolica.
È la questione di sempre: ci si preoccupa più di educare che di istruire. Del resto educare pare essere più facile che istruire, come è più facile trasmettere il dover essere che il divenire. La scuola da sempre offre un terreno molto favorevole a quanti sono preoccupati di plasmare le coscienze anziché formare le intelligenze, perché raduna tutti i giovani quando sono facilmente manipolabili, condizionabili e suggestionabili, perché le loro menti ancora devono maturare e quest’ultima possibilità difficilmente è loro offerta dalla nostra scuola.
La scuola è terreno estremamente delicato, perché luogo di formazione della parte più fragile della nostra società: le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi. Tutti si dovrebbe fare un passo indietro, essere molto attenti a evitare interferenze, tenersi distanti con le proprie idee e convinzioni da chi le idee e le convinzioni deve conquistarsele da sé, con la propria testa e non con quella degli altri.
“È decisivo abbandonare l’attuale modello istituzionale statalista per sostituirlo con uno nuovo, espressione delle più vive dinamiche sociali”, scriveva nel 2002 l’attuale direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna in un testo da lui curato, “La scuola della società civile tra Stato e mercato”, forse questo spiega la sua intenzione di ricorrere contro la sentenza del Tar.
Il tema riproposto dalla benedizione pasquale delle scuole è ancora quello, da tempo caro a certi ambienti cattolici del nostro paese, del rapporto tra scuola e società civile. Un tema da interferenze e cortocircuiti, fino a quando cattolici e teorici del libero mercato dell’istruzione anche nel nostro paese non saranno in grado di provvedere da soli a farsi le loro scuole, senza ricorrere allo Stato, ai bonus scuola e, ovviamente, alle benedizioni pasquali.
