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Non c’è da stupirsi dei tanti “novax” in un paese come il nostro in cui ci si può ancora vantare con vezzosa prosopopea di non capire nulla di matematica, di rifiutarsi di giungere a compromessi con le nuove tecnologie. Tutta gente che sguazza nell’epoca della post-verità tra bufale e pregiudizi e qui non c’è vaccinazione che ti possa salvare se non tornare a praticare la scienza in modo diffuso e capillare.
Siamo il paese in cui è nata la scienza moderna con Galileo Galilei, ma che dall’abitudine al pensiero scientifico ha divorziato, basti pensare all’avarizia di ore che i programmi delle nostre scuole riservano allo studio della matematica, della fisica e delle scienze naturali. Non abbiamo nemmeno conoscenza del nostro corpo che pure è l’ambiente naturale con cui più conviviamo, che ci dovrebbe essere familiare, invece la nostra salute è totalmente delegata al servizio sanitario nazionale, di conseguenza basta poco alla nostra ignoranza per intasare un pronto soccorso.
I tesori e le meraviglie che fanno la cultura della nostra terra non ci sarebbero se dietro non avessero la scienza, la fatica della ricerca, non le ipotesi metafisiche ma il linguaggio matematico. Noi abbiamo riassunto tutto nel vanto della cultura umanistica, così nelle nostre scuole anche del pensiero scientifico siamo riusciti a farne una narrazione.
Un paese che non ha cultura scientifica è un paese che non fa innovazione, è un paese più fragile, un paese più esposto, come accade, al contagio dell’anti-scienza.
Eppure il mercato e il futuro hanno fame di scienza. I dati dell’Istat dimostrano che i più alti livelli di occupazione si registrano tra i laureati dell’area ingegneria industriale e dell’informazione e tra i laureati dell’area delle scienze matematiche e informatiche. Contemporaneamente però i dati ci dicono che l’Italia ha troppo pochi laureati nelle discipline scientifiche e questo perché spendiamo poco in formazione. Di conseguenza il ridotto investimento colpisce proprio ciò di cui avremmo più bisogno: crescere una cultura scientifica con investimenti in strumenti, laboratori e personale preparato a partire dalla scuola primaria e secondaria dove si forma il pensiero e si indirizzano le scelte degli studenti.
In realtà è parecchio che la cultura scientifica costituisce un’emergenza per il nostro paese come per il resto dell’Europa. Da tempo le università hanno lanciato il segnale d’allarme di un costante e sensibile decremento delle iscrizioni ai corsi di laurea scientifici, fino alle più recenti difficoltà a trovare insegnanti di matematica da impiegare nelle cattedre del sistema formativo.
Le nostre scuole non riescono ad appassionare al pensiero scientifico, perché la scienza che vi si pratica è nozionistica, fatta di formule e nomenclature, di procedure già date, non affascina le menti, non impegna cervelli e intelligenze, non muove dalle “hypotheses fingo” alla scoperta. Dovremmo trovare i mezzi per alimentare le nostre scuole con le conoscenze sempre più profonde che si vanno maturando alle frontiere del sapere. Può più una puntata di Superquark o Planet Earth di un intero curricolo scolastico.
È che qui sono in gioco cose pesanti come il futuro della società, lo sviluppo economico e la ricerca di soluzioni alle emergenze ambientali e sanitarie a livello locale come globale.
Occorrerebbe che lo stesso impegno che viene profuso per i beni culturali fosse riservato anche ai beni scientifici, che anche loro sono beni culturali, patrimonio e storia della nazione; brilliamo per le manifestazioni artistiche, molto meno per le manifestazioni scientifiche, perché la scienza non fa turismo, non fa circolare il denaro.
Siamo ancora il paese di santi, poeti e navigatori, un paese che non considera cultura la scienza, un paese in cui è un vanto mandare a memoria gli endecasillabi della Divina Commedia, ma non ci si vergogna di ignorare la semplicità e l’eleganza della formula di Einstein: E=mc².
Eppure più dei prodotti artistici sono le conquiste della scienza che nel corso della storia hanno mutato l’immagine che l’uomo ha di sé.
A sessant’anni di distanza forse avremmo bisogno anche noi della nostra Conferenza di Woods Hole. Gli Americani la tennero in Massachussetts nel 1959 preoccupati di essere superati dai Sovietici che avevano lanciato nello spazio lo Sputnick. Di questo accusarono i loro programmi scolastici che non davano abbastanza enfasi allo studio delle scienze e della matematica. Allora decisero di impegnare le migliori menti del paese per riscrivere i programmi scolastici. Cosa che da noi non si è mai fatta. Forse è giunto il tempo di provvedere, non perché ci sia in gioco una cortina di ferro, ma perché in gioco è la cortina tra noi e il futuro.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it