LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA – Non basta protestare, di scuola bisogna parlare
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Poteva essere un’occasione di apprendimento di quelle da segnare nei percorsi di una città della conoscenza. Non è stato così, non per la qualità dell’evento, ma per il pubblico esiguo che ha assistito. Parlo della tavola rotonda organizzata dall’Istituto Gramsci alla sala Arengo del Comune sul tema “Quale scuola per il Paese”.
Non ne scrivo oggi solo perché a quella tavola rotonda sono stato gentilmente invitato come relatore, ma per una sorta di riflesso professionale per cui mi prende lo sconforto tutte le volte che sui temi della scuola, quella che frequentano i nostri figli e nipoti, colgo disinteresse e disattenzione.
Eppure sono trascorsi appena due mesi dacché al ministro Giannini è stato impedito di parlare di scuola in piazzetta San Nicolò da manifestanti di associazioni e organizzazioni sindacali del settore.
È possibile che in questa città non si sia in grado di dialogare intorno ai temi della scuola tra quanti almeno ne sono direttamente interessati, non dico come cittadini, ma come genitori, studenti, insegnanti, dirigenti? Nessuno si è fatto promotore di nulla, a parte la Festa della Scuola del PD che, per essere nazionale, è stata davvero un buco nell’acqua.
La protesta farà forse l’interesse di chi la porta avanti, ma non certo quello del Paese, anzi impedisce di parlare e di riflettere sui temi della formazione, con buona pace di quanti nutrono l’obiettivo che nulla cambi.
Se non vogliamo farci dettare le condizioni dall’Ocse, dalla Banca Mondiale o dalla Bce, come è accaduto con la lettera dell’agosto 2011, dobbiamo chiederci di quale formazione hanno bisogno i nostri giovani per vivere il mondo tra 15, 20 anni.
Questa è la domanda inevasa. Questa è la domanda a cui non rispondono né la legge 107, né la legge di Iniziativa Popolare, detta ‘Lip’, perché neppure se la sono posta.
Del resto, al di là dell’abuso della parola ‘riforma’, nessuno propone di dare ‘forma ex novo’ alla scuola italiana. In realtà ci si limita, nel caso della legge 107 con il suo articolo unico, a delegare in 212 commi una serie di provvedimenti, tutti inventariabili come aggiustamenti, secondo la migliore tradizione italiana, che consiste nell’innesco del nuovo sul vecchio, di modo che il vecchio permanga più o meno integro e che il nuovo si degradi a causa di una convivenza il più delle volte precaria o addirittura impossibile.
Così la nostra scuola continua a rimanere schiacciata tra passato e presente, senza mai traguardare il futuro. Schiacciata tra la legge Casati, la riforma Gentile e l’Ocse-Pisa.
Quando il problema è elementare. Un modello educativo congegnato per il XIX secolo non può funzionare per gli studenti del XXI secolo. Se questa questione non si affronta nella sua radicalità, ogni discorso di riforma è puro millantato credito o, meno gentilmente, presa per i fondelli o insipienza politica, a destra come a sinistra. Mentre per la destra, che è di sua natura conservatrice, ovviamente lo si comprende, non lo si può comprendere, non lo si può perdonare ed è inammissibile per la sinistra, che su una questione urgente come è quella educativa non può giocare al riformismo.
Non può persistere il modello di un impero scolastico creato dagli Stati-Nazione a partire dal XIX secolo, focalizzato intorno alla crescita economica, a una divisione del lavoro che non esiste più, allo sviluppo militare, alla formazione del cittadino. La natura antiquata di questo modello è quella che causa l’alto tasso di abbandono e di dispersione scolastica e che assegna al nostro paese questo triste primato.
Allora è proprio l’architettura scolastica come tradizionalmente la conosciamo che deve cambiare. Il tramonto di ogni ex cathedra, l’innovazione nella relazione tra studente e insegnante, tra studente e adulti esperti, sono la chiave di volta di questo cambiamento. Non quello che dice Recalcati, l’eros nell’ascoltare quanto è bravo e coinvolgente quell’insegnante. L’insegnante attore. L’insegnante Carmelo Bene. Perché con questo, per dirla con Paulo Freire, nulla cambia dell’educazione “depositaria”, nulla cambia di un tempo scuola che prevalentemente si estrinseca nella trasmissione dei saperi da un contenitore all’altro.
È necessaria una struttura di apprendimento radicalmente diversa da quella tradizionalmente fondata sulle classi, sui banchi, i corsi, gli orari, i voti, gli esami, le bocciature e le ripetenze. E bisogna pensarla, provarla, sperimentarla, a questo dovrebbe servire una riforma.
Una struttura della fiducia e del riconoscimento, una struttura che ponga al centro lo studente come valore, che chiede di trovare risposta a i propri bisogni, al proprio progetto di vita. Non più classi, ma diversificazione dei percorsi di apprendimento, fatti a misura d’ogni singolo alunno, nel rispetto delle sue motivazioni e dei suoi obiettivi. Gruppi fluidi, mobili, di differente composizione, gruppi che si costituiscono per obiettivi, per esigenze dello studente, per progetti, gruppi che possono combinare studenti di età differenti, di differenti livelli di apprendimento e di differenti interessi. Una scuola dove si apprendono le abitudini della mente, dove si apprende non a trattenere il sapere, ma a saper trattare il sapere, a saper trattare le conoscenze, a conoscerne la loro natura.
Una scuola soprattutto che abbia come obiettivo di formare a una vita lunga e felice, al bene-essere, alla felicità. Felicità, parola stravolgente e rivoluzionaria? Se non ci decidiamo in questa direzione, difficilmente ci difenderemo contro i fanatismi e le violenze. Forse è questa la vera strada da percorrere contro i seminatori di lutti.
Ma abbiamo bisogno degli insegnanti per fare tutto questo. Di insegnanti professionisti dell’istruzione, partner dell’apprendimento. Storicamente nella scuola le riforme nascono dal basso, le leggi vengono sempre dopo per normare prassi che sono divenute consuetudini. Perché come il mondo della scienza anche la scuola si può rigenerare solo dal suo interno, basti pensare a Freinet, a Mario Lodi, a Bruno Ciari, all’esperienza di Loris Malaguzzi e di Sergio Neri dalle scuole dell’infanzia, ai nidi, al tempo pieno.
Dovremmo tutti chiederci cosa è accaduto. Perché la nostra scuola, salvo rare eccezioni, non ha più la forza di autorigenerarsi.
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Giovanni Fioravanti
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