LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Politica e valori: l’incubo di un sogno rovesciato
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Espressioni come “Il battito della città”, “La città che vogliamo” non sono solo titoli intorno ai quali organizzare l’impegno di liste che nascono dalla società civile per una gestione condivisa della comunità e del territorio che si abitano. Sono prima di tutto molto di più. Un modo nuovo di intendere il rapporto tra il sé e la città, il sé e gli altri, non da utenti amministrati, ma da padroni di casa che hanno cura e amore della propria abitazione e di quanti con loro vivono sotto lo stesso tetto, senza chiedere a nessuno credenziali, ma solo di condividere lo stesso impegno e lo stesso amore. Un’idea di gestione della città non delegata a un governo di pochi, ma diffusa e condivisa che chiama in causa la responsabilità di tutti e il ruolo di ciascuno.
La città è nostra, è per noi, dunque riprendiamocela, per farla più bella e più abitabile, senza escludere nessuno e con il contributo di tutti, come deve essere per le cose che non sono né mie né tue, ma nostre, di tutti noi. L’idea che anziché essere governati possiamo decidere di governarci, senza meet up e piattaforme Rousseau, ma con la maturazione di una cultura nuova, di un senso di responsabilità condiviso che si esprimono e si confrontano nell’incontro e nella partecipazione.
Per farlo bisogna ricominciare da capo, spogliarsi dei vecchi abiti, lasciare a casa gli a priori e portarsi dietro i valori, i valori di umanità condivisa e partecipata, i valori dei saperi, della conoscenza, della cultura, del dubbio e delle incertezze, i valori della nostra Costituzione nata dalla Resistenza che è la premessa al nostro stare insieme, al nostro abitare la stessa casa, la stessa città.
L’intelligenza ci serve, nient’altro. La consapevolezza che la stagione delle “amministrazioni comunali” è finita. Intendo la stagione delle amministrazioni comunali come le abbiamo finora conosciute, ancora figlie del secolo che ci siamo lasciati alle spalle e che con il terzo millennio non possono più essere come prima, hanno bisogno di essere reinventate, di più fantasia, di più generosità, di più intelligenza. Di lasciare le piattaforme digitali e di scendere in piazza a mettere a disposizione della città parte del proprio tempo, le proprie competenze, la propria cultura, la propria intelligenza, giocarsi come capitale umano, come risorsa della città anziché come numero del casellario anagrafico. È necessario che ognuno viva sé stesso e il suo prossimo come risorsa indispensabile al presente e al futuro della città, a partire prima di tutto dai giovani, su cui una città non può che investire, con attenzione e massima cura.
Invece ci ritroviamo riproposta la più becera delle amministrazioni comunali, neppure sulla falsa riga dei governi locali ereditati dal passato, qualcosa da feuilleton dell’ottocento, un’amministrazione d’appendice come i romanzi, con la ruspa per cacciare i Rom dai campi nomadi, mentre si appendono i crocifissi nelle aule delle scuole.
È l’incubo di un sogno rovesciato, la metastasi sul corpo sociale della città. La violenza di chi governa per disegnare la città a sua immagine, la riduzione al pensiero unico, l’infantilismo dell’egotismo politico.
La città è in ostaggio di questa giunta e una città in ostaggio non è amministrata, ma piegata, avvilita, mortificata.
Non potrà mai scaturirne una stagione di rinascita della città, di crescita comune, di sogni da condividere, ma solo divisioni e ferite allargate, odi e livori, una vita da separati in casa.
I cuori non battono, i desideri si raggelano, le persone si cancellano nell’illusione della sicurezza di essere gli uni diffidenti degli altri, divisi, perché divisi il nuovo podestà ci vuole per governarci meglio, per espropriarci della città e farla sua, assegnando a ciascuno la casella da occupare, dove stare ritirato in tranquillità.
Più i giorni passeranno più qualcosa verrà sottratto alla città, il contributo della sua intelligenza e delle risorse umane che la abitano, rubato alla sua anima, alla sua cultura, ai suoi giovani e al loro futuro, al domani della città che non si vede da nessuna parte, scomparso ancora prima dell’apparire delle nebbie.
Una città di cittadini provvisori, privati di cittadinanza, utenti di un dormitorio, che s’alzano al mattino e tornano al tramonto, a cui ogni tanto assicurare qualche distrazione perché mai venga da pensare di vivere in un ricovero, dove ognuno vale uno. Uno nel senso di numero, nel senso di ordine, nel senso di occupare una casella, nel senso di oggetto, perché l’unico soggetto è quello che risiede in piazza municipale.
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Giovanni Fioravanti
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