“Che città è questa? È la Città del Tutto? È la città dove tutte le parti si congiungono, le scelte si bilanciano, dove si riempie il vuoto che rimane tra quello che ci si aspetta dalla vita e quello che ci tocca?”
È “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. In una città i destini sono sempre incrociati, si incrociano e questo è il senso più vero di abitare una città. Interrogarsi su cosa sia “il vuoto che rimane tra quello che ci si aspetta e quello che ci tocca”. Credo che forse, quel vuoto, è il futuro possibile, non quello probabile, ma quello possibile. Quello che nessuno più racconta.
C’è qualcosa che la politica, questa forma che abbiamo dato al nostro stare insieme, non sa più fare: immaginare il futuro, non ciò che è probabile, ma ciò che è possibile. L’etica della possibilità. La politica è chiamata a rispettare “l’etica della possibilità”, perché questo è il patto su cui ancora può reggere ogni cittadinanza.
Di fronte all’ineludibile angoscia del tempo, questa del futuro è una questione seria, perché nessuno ci può privare dell’appuntamento con la speranza, dell’appuntamento con le nostre aspirazioni, è tutta qui la forza della vita.
Il futuro è il più grande fatto culturale del nostro tempo, ha scritto l’antropologo indiano Arjun Appadurai. Un tempo che non ha il futuro è senza tempo.
Cresciamo che la cultura è sempre coniugata al passato: tradizioni, abitudini, patrimonio, costume, retaggio. Così la cultura si fa barriera, limite, esclusione, ostacolo.
Il futuro è la dimensione più trascurata della cultura. Se la cultura non guarda lontano non è cultura, la cultura non è fatta per continuare a guardarsi alle spalle, la cultura è cultura se sa costruire orizzonti, se sa immaginare, se sa produrre respiri ampi.
Il fatto è che quando la cultura viene coniugata al futuro si chiama sviluppo, così cede il posto all’economia che è diventata la sola scienza del futuro, espropriandoci delle nostre vite, portandosi via le nostre aspirazioni, i nostri progetti. Ecco come siamo stati scippati del futuro, della capacità di avere aspirazioni, d’essere uomini costruttori di futuro, di futuri come fatti culturali.
Il futuro non può che essere il trauma dei nostri presenti, se non vogliamo rimanerne schiacciati e paralizzati. Per dirla con Amartya Sen, la fioritura delle persone ha come concime la libertà di svilupparsi pienamente, affermando la propria dignità, valorizzando i propri talenti, ha la sua cittadinanza a partire dal poter immaginare futuri possibili.
L’età della diffusione delle conoscenze e delle competenze non può tradire l’aspirazione che ognuno porta di realizzare se stesso più delle epoche che ci siamo lasciati alle spalle. Da questo punto di vista ognuno di noi ha il proprio archivio con cui immaginare il futuro, con cui negoziare l’attesa del futuro.
Ma alla politica spetta il compito di creare le condizioni per rendere il cambiamento sempre possibile, coinvolgente e partecipato. Spetta di sviluppare modi di pensare, sentire e agire che amplino gli orizzonti della speranza, espandano il campo dell’immaginazione, generino maggiore equità nella capacità di aspirare. Non può vendere illusioni, come non può soffocare le aspirazioni. Nella nostra storia le città sono sempre state il luogo della realizzazione ideale delle aspirazioni degli uomini.
Abbiamo bisogno di ritornare alla città, alla cultura urbana come cultura della prossimità, della condivisione, del patto di cittadinanza, dell’apertura all’altro, del protagonismo nel cambiamento che si traduce in iniziative molteplici e diversificate, perché una città è sempre un organismo che palpita.
La democrazia è chiamata a tradursi nella pratica quotidiana della speranza, degli orizzonti da conquistare, uscire dalle nostre soggettivizzazioni per costruire insieme la cultura del futuro in una città policentrica e polifonica. Cucire il tessuto del futuro con il filo delle idee, della cultura e dell’immaginazione, collettivamente prima ancora che individualmente.
Le nuove generazioni sono di “nativi interculturali” e da questo non si torna indietro, come non si torna indietro dalla pluralizzazione degli stili di vita, dalle contaminazioni, perché questi sono già gli scorci più promettenti di una cultura del futuro.
L’uomo abita e trasforma il mondo con la cultura, con la cultura gli assegna senso, la cultura è la dimensione imprescindibile dell’agire sociale, della convivenza, della trama delle relazioni entro cui costruiamo la nostra esistenza come singoli e come collettività.
Chi non è capace di cultura del futuro è spento, promette solo il buio. Noi siamo nati per vivere nella luce delle nostre città che devono tornare a risplendere in questo millennio che promette di essere il millennio delle città.
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Giovanni Fioravanti
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