A sentire Rousseau per scrivere un contratto non occorre essere principi e neppure legislatori. Al negozio giuridico bilaterale in politica ci aveva introdotti, dagli studi televisivi di Porta a Porta, l’imprenditore milanese del mattone e dell’etere, una sorta di Wanna Marchi che pubblicizzava le qualità del suo prodotto qualora fosse stato acquistato dagli italiani.
Salvini e Di Maio il negozio invece l’hanno fatto tra loro per poter andare al governo e da lì piazzare la loro merce.
A tale scopo hanno accettato di sottomettersi vicendevolmente alla volontà dell’altro, di rinunciare ciascuno a parte della propria libertà, pur di acquisire i vantaggi oggetto della negoziazione. Quei benefit declinati dalla trama della narrazione che ciascuno aveva raccontato al proprio popolo. Autori della novella, il contratto doveva servire a renderla credibile, a sottrarla al sospetto della affabulazione propagandistica che accompagna ogni promessa politica.
Accedendo alla stipula, i due leader sceglievano di autolimitarsi in funzione di un bene maggiore, quello di essere architetti della propria parte del concordato sottoscritto, senza che l’altro contraente ne possa ostacolare la costruzione, dando per acquisito che ciascun sottoscrittore è sottomesso solo alle leggi e agli obblighi che derivano dal contratto stesso.
La perdita della propria sovranità e della propria autodeterminazione, sta nelle cose, perché una volta siglato il negozio, non v’è spazio alcuno per tutto ciò che potrebbe contraddire gli impegni assunti nel convenuto tra le parti.
Ne è conseguito che le comunità di elettori, rappresentate dai due leader, abbiano perso di “rappresentatività” per tutto quanto non contemplato dalla scrittura. Il post pubblicato per offrire approdo all’Aquarius, e poi ritirato, dal pentastellato sindaco di Livorno Nogarin, per timore che potesse danneggiare l’accordo di governo, ne è la dimostrazione.
Così il potere torna a tradire chi l’ha eletto. Prende le distanze, si fa sovrano al di sopra delle promesse, ora vincolate ai vincoli di un rogito. Tutte le aspirazioni e le attese restate fuori dalla stipulazione, lasciano ora il popolo privo di voce, perché chi dovrebbe renderla propria non è più tenuto a raccoglierla in quanto non previsto dal contratto.
Il governo è un organo, non è i contraenti e neppure è il contratto. Un organo creato non da un atto notarile, ma per opera di una legge che al governo affida il “potere esecutivo”, che vincola il governo al potere del sovrano che è il popolo nelle sue forme di rappresentanza diretta o indiretta, da cui comunque riceve un mandato imperativo.
L’inganno del contratto, abbaglio del populismo, è tutto qui. Quello di aver tagliato fuori dal tavolo della contrattazione il popolo e tutte quelle aspirazioni che il contratto non poteva recepire e che dovranno attendere il prossimo giro.
Il fatto è che un popolo non funziona a contratto. Un popolo ha una storia e una cultura, ha sofferenze e generosità, ha visioni del tempo e della vita. È vero, vota e sceglie, è soggetto alle ondate, come agli sbandamenti, a innamoramenti e delusioni, interessi ed egoismi, ma il popolo vive la vita di tutti i giorni ed è la vita di tutti i giorni che va governata. La vita di tutti i giorni se ne infischia di stipule e di rogiti, perché nei margini dei contratti non può starci dentro.
L’ambivalenza delle vicende umane costringe ad affrontare le contraddizioni, a scegliere tra il nero e il bianco, cosa di cui un contratto non può rendere ragione, perché non può servire a quello sforzo quotidiano di passaggio continuo da una condizione incerta e precaria a una “società civile”, che è il compito di ogni governo, di ogni governo che intenda garantire le condizioni basilari per una convivenza ordinata.
La società non ha bisogno dei bottegai della politica che tirano sul prezzo dello stare insieme, della crescita comune, della condivisione.
Per questo il governo di un paese non dovrebbe mai nascere per atto notarile. Il governo di un paese, qualunque colore abbia, dovrebbe essere in grado di respirare del respiro del popolo per cui amministra, ha bisogno di una finestra con vista sugli orizzonti della politica, non sui prodotti da smerciare in nome di un contratto.
La differenza tra programmi e contratti è tutta qui, è uno scarto di respiro, di visioni, di prospettive.
È una questione di cultura e di morale. Nel primo caso si assiste al tramonto di ogni weltanschauung, di ogni visione della vita, dello zeitgeist, dello spirito del tempo, per lasciare il posto agli oggetti del negoziato. Nel secondo, alla voce “dovere” non corrisponde più un’idea di giustizia, un’idea di società per la quale valga la pena servire il paese nell’esercizio della cosa pubblica, il posto è lasciato al sopravvento dell’impulso, del diritto del desiderio, scritti nero su bianco nei commi della stipula.
Il presidente del consiglio da politico della polis assume le vesti del notaio che vigila sull’aderenza al negozio, non sul destino della comunità e della sua gente, la sua responsabilità si limita a quanto scritto nella redazione delle intese. Cancelliere delle parti che prestano ascolto alle inclinazioni degli impegni contrattuali ancor prima di interpellare la ragione, sostituendo ai principi e agli ideali, arnesi di altri tempi e di altre democrazie, le clausole del contratto da onorare.
Il legame sociale è fragile, perché la comunione degli interessi realizzata con il contratto non è il prodotto di visioni concordanti ma solo il frutto di faticose giustapposizioni, la somma dei diversi.
Se la direzione d’orchestra non è comune, ognuno suona la sinfonia del suo spartito. Non c’è governo della società se la “raison publique”, la ragione pubblica, la ragione sociale, anziché essere generale è sopraffatta da quella particolare di ciascuno dei convenuti al tavolo delle trattative.
Un contratto di ausili per garantire l’accesso al governo di Lega e Cinque Stelle, un matrimonio d’inganni, plaudente il popolo che come sempre ci rimette in libertà e giustizia.
in copertina elaborazione grafica di Carlo Tassi
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Giovanni Fioravanti
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