Per essere felici bisogna dare enfasi al futuro. È quello che ha fatto la Norvegia, a capo della classifica della felicità mondiale, investendo i propri profitti a beneficio delle generazioni future. Noi che abbiamo ipotecato il futuro di figli e nipoti dobbiamo essere di una tristezza terrificante. Secondo il rapporto mondiale sulla felicità è importante essere soddisfatti del proprio lavoro, essere felici sul lavoro rende la vita più sostenibile. Ma futuro e lavoro sono ingredienti che da noi mancano da parecchio.
Sono svaniti pure i creativi, quelli che aiutano a sognare, da troppo tempo il nostro orizzonte è grigio uniforme.
Si pensa che la gente si adatti a tutto, digerisca di tutto, quando invece cresce sempre più il numero delle persone che si chiama fuori, che non ci sta a vivere una amministrazione ragionieristica delle proprie esistenze. Di nuovi travet della politica, digitali o analogici, non ce n’è proprio bisogno. Vogliamo incontrare noi stessi, star bene con noi stessi, essere felici di vivere una vita felice, perché questo è il diritto primo di ciascuno di noi, e a mettere al mondo figli senza questa certezza non ci sta più nessuno. Sono tramontati i tempi della procreazione; i figli è già un po’ che nella coscienza delle coppie sono un investimento affettivo. Se così è, è solo la prospettiva di un futuro di felicità che li può contenere.
La cultura corre avanti, anticipa i tempi e le politiche restano indietro, costruiscono zavorre, mentre i denari per chi ce li ha crescono a danno di chi possiede solo la propria vita da gestire e i burattinai ti lasciano pendere dai tuoi fili nell’esposizione scenografica del teatro dei pupi. Non è più il momento della delega a gestire le regole del gioco che altri hanno deciso. Questo è il tema della nostra stagione.
Si muovono concetti nuovi, solo poco tempo fa impensabili. Il bene comune, ad esempio. Ciò che non è né mio né tuo, ciò che è nostro. Mettere in soffitta l’eccesso di alcuni pronomi personali dall’io, al voi, al lei, per riscoprire il noi, l’insieme degli io. Ecco il bene comune, la cui cura non si delega ma spetta a ciascuno, non nell’interesse mio o tuo o di altri, ma nell’esclusivo interesse del bene. È il principio dello sharing, della condivisione, dell’uso non consumistico ma conservativo delle risorse, dai beni all’ambiente. È l’idea che esiste ancora uno spazio per la condivisione, un modo nuovo di pensare e reinventare la partecipazione dei cittadini. C’è spazio per vivere in una città collaborativa e policentrica. Per vincere la filosofia del denaro che ha pervaso la cultura tipica delle nostre città, come scriveva Simmel. Città dove le piazze servono sempre più il mercato sempre meno l’incontro, l’interazione dei loro cittadini.
Incentivare l’energia, l’intelligenza e l’innovazione civica. Occorre consentire alle persone di coltivare se stesse, di prendersi cura degli altri e dei beni comuni, perché da questo può dipendere la felicità pubblica e privata. Non c’è città se la dimensione umana non prende il sopravvento, la dimensione umana che ci esplode intorno.
La “fioritura delle persone” per dirla con Amartya Sen, ecco un altro concetto nuovo.
La “fioritura delle persone” pare parlare dell’impossibile, non c’è luogo del tempo e della storia che la contempli. Noi però quel luogo potremmo provare a desiderarlo e a immaginarlo; ma è necessario che il domani delle nostre città sia già contenuto nell’oggi, se non vogliamo che il futuro ci divenga una terra straniera.
La felicità delle persone come imperativo di ogni città, la città come luogo in cui lo star bene di ciascuno è una realtà. Amartya Sen ha spiegato che la condizione di non benessere o di disagio si determina ogni qualvolta viene negata alle persone la libertà di svilupparsi pienamente, di affermare la propria dignità e valorizzare i propri talenti. Non sarà il salario di cittadinanza a salvare le nostre esistenze, ma amministrare le nostre città in modo da promuovere la “fioritura delle persone”, ciò che per Amartya Sen costituisce il vero fulcro della felicità, l’unico valore da misurare per saggiare il reale benessere di una comunità.
Una città capace di dare senso al tempo della vita dei suoi cittadini, una città capace di unire etnie e generazioni, culture e idee, vite ed esistenze. Una città altra che non è più quella che abitiamo. Occorrono altre lunghezze d’onda, innovazione e talento, immaginare che un’altra umanizzazione è possibile e che anche un’altra città è possibile.
Il futuro doveva avere il volto rassicurante del progresso, di una umanità più umana, ora ha il volto dell’ansia, dell’angoscia, della paura, dell’incerto.
Si può invertire la rotta a partire dalle nostre città: “In sogno ho sognato, vedevo una città / inattaccabile da tutto il resto del mondo, / ho sognato che era la nuova città degli Amici, / nulla v’era colà di più grande del tipo d’amore / robusto, che dominava su tutto, / si rivelava ogni istante negli atti degli uomini / di quella città / nei loro sguardi e parole”. Sono i versi di Walt Whitman.
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Giovanni Fioravanti
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