Pare che in giro cresca la voglia di apprendere. A testimoniarlo sono i dati in continua lievitazione degli adulti, di tutte le età, che frequentano i corsi della rete delle università popolari, dimostrando che l’apprendimento non formale, l’apprendimento di strada è sempre più un’esigenza diffusa, mentre, nonostante le direttive europee, nel nostro paese l’educazione permanente attende ancora di essere riconosciuta e le competenze in materia scarseggiano a livello centrale come locale.
Noi di “ferraraitalia” nel 2015 abbiamo lanciato il manifesto “Ferrara Città della Conoscenza” convinti che tutta la vita è apprendimento e che lo sviluppo della società dipende dalla nostra capacità di apprendere.
In questa rubrica, ritorniamo sistematicamente su questo tema, per ampliarlo, approfondirlo, fornire suggerimenti, riportare le esperienze degli altri. Ma a parte gli amici che hanno sottoscritto il nostro appello, non abbiamo trovato sensibili né l’Amministrazione comunale né quanti di professione esercitano l’insegnamento nell’università e nelle scuole, neppure quanti operano nelle istituzioni culturali, nell’associazionismo e nel volontariato, per non parlare di partiti e movimenti del tutto latitanti.
Significa che il tema in questa città non è sentito, non si comprende che siamo giunti a un punto in cui la nostra convivenza come cittadini passa oggi proprio attraverso l’apprendimento continuo, attraverso una città che apprende.
Si sa che Ferrara è luogo di splendidi orti e giardini, pertanto ognuno è sempre troppo occupato a curarsi del suo per prendere in considerazione prospettive che esulano dai propri recinti.
Nel frattempo l’educazione permanente è diventata una necessità dell’epoca che viviamo e, dunque, ha bisogno di sempre maggiori spazi. Non è più solo quella degli adulti che devono recuperare percorsi scolastici non compiuti o non completati, è ormai una dimensione inscindibile dalla nostra esistenza indipendentemente dalla condizione economica o dall’istruzione.
Una città che apprende è un’idea di città in cui le persone agiscono insieme per migliorare le condizioni sociali, economiche, culturali e ambientali della propria comunità. È l’idea che l’apprendimento continuo è iI carburante che può sostenere le città di fronte alle nuove sfide che inducono a mettere in discussione le proprie presunzioni, le proprie meta-narrazioni culturali. L’idea che una città che apprende può favorire quell’agilità mentale necessaria a comprendere e a vivere la complessità del presente attraverso l’uso comune dell’apprendimento riflessivo.
Ma da noi l’istruzione permanente assomiglia ancora troppo alla scuola, con banchi, cattedre e lavagne, non ha operatori con una propria professionalità e soprattutto non dispone di una didattica per gli adulti. Più spesso è un modo per procurare fondi ad associazioni che diversamente non saprebbero come sopravvivere, tutte prive di competenze in materia di apprendimento permanente, soprattutto incapaci di articolare un discorso sulla città che apprende.
Dove sono i professionisti dell’educazione permanente? Sono loro che dovrebbero prendere l’iniziativa per disegnare la “città che apprende”. Perché i professionisti dell’insegnamento e dell’apprendimento che lavorano nelle nostre scuole e nell’università non si occupano di farsi promotori della costruzione della città che apprende?
Ognuno è preoccupato a presidiare il proprio territorio senza rendersi conto che formazione e istruzioni hanno cambiato volto, sono qualcosa che va oltre le mura tradizionali di scuole, università e luoghi di lavoro.
C’è da chiedersi dove sono i professionisti dell’istruzione e dell’apprendimento nel nostro paese, se abbiamo cresciuto solamente esperti di insegnamento di materie scolastiche e accademiche, ma nessun esperto dei processi di apprendimento, di come si apprende e tanto meno di apprendimento continuo.
Un riepilogo, una breve panoramica storica del movimento delle città che apprendono, sarebbe utile a quanti si occupano di educazione degli adulti, conoscere i concetti di lifelong education e lifelong learning e come proprio dalla loro connessione è nata l’idea della “città che apprende”.
Jarvis, un importante teorico del concetto di società della conoscenza, descrive la città che apprende come “una città in cui la maggior parte delle istituzioni sociali mette a disposizione delle persone la possibilità di acquisire conoscenze, abilità, atteggiamenti, valori, emozioni, credenze e opinioni all’interno di una società globale. Jarvis sottolinea che, mentre l’apprendimento avviene a livello individuale, la società può sostenere l’apprendimento attraverso politiche, strutture e norme che lo incoraggino.
“Learning to Be”, l’educazione permanente, si riprometteva come concetto principe della riforma dell’intero sistema dell’istruzione (Faure e altri, 1972). Ciò suggeriva che “una corretta realizzazione dell’educazione permanente avrebbe comportato la creazione di una società della conoscenza in cui l’accesso all’istruzione e l’apprendimento sarebbero stati dati per scontati, un diritto umano inalienabile come l’acqua pulita o un tetto sopra la testa” (Boshier 2005).
È stato proposto che questo tipo di società della conoscenza sostenesse il movimento dall’istruzione formale a quella informale senza soluzione di continuità nell’intero arco della vita, e che le politiche e le risorse del governo e delle imprese avrebbero sostenuto l’accesso equo e continuo al finanziamento dell’istruzione, promuovendo la diffusione dell’istruzione in tutti i settori della società (Boshier, 2005; Smith, 1996/2001).
Non è stato così, né l’Europa né i nostri governi sono stati all’altezza.
Ci troviamo, quindi, di fronte ad un terreno ampio su cui lavorare, tutto da arare, che dovrebbe vedere protagonisti oggi nelle nostre città proprio le amministrazioni locali e i professionisti dell’apprendimento, ma pare che sia gli uni che gli altri siano ancora ampiamente impreparati.
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Giovanni Fioravanti
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