LA CITTA’ DELLA CONOSCENZA
Gli ingannevoli algoritmi dei nostri like
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Pare che siamo sempre più migranti verso noi stessi, abbiamo inventato il modo di nutrire ogni giorno le nostre convinzioni, le nostre sicurezze, le nostre arroganze. I “like” che usiamo sono like che in realtà rivolgiamo a noi stessi, autoreferenziali, perché è like tutto ciò che assomiglia a quello che pensiamo, che vorremmo leggere o sentirci dire. Scegliamo sempre più di vivere, lavorare e socializzare con persone a noi simili per ogni aspetto e nulla è più simile a noi di noi stessi. I nostri comportamenti in internet sono lo specchio di tutto questo, ne consegue che rompiamo i ponti con tutti gli altri che non sono come noi. Da quando i social sono divenuti tante piazze virtuali è più facile porre fine ad una amicizia con un clic che con una animata discussione vis a vis.
Ci va di mezzo il sapere, la conoscenza, la competenza e soprattutto la regola più elementare di ogni democrazia, la capacità della gente di andare d’accordo con gli altri. Ecco, forse vanno ricercati qui i prodomi della società del risentimento e dell’astio.
Tutti rincuorati e rafforzati dagli ingannevoli algoritmi dei nostri like che ci fanno vedere sempre più le cose che ci piacciono ed escludono tutte le altre. Siamo impantanati in internet, presi nelle sue sabbie mobili. Così non ci fidiamo più di nessuno, professori, scienziati, esperti. Su tutti domina Google, l’infallibilità di Google e Wikipedia sourcing che alimentano l’illusione di poterci procurare una competenza fai da te.
“La conoscenza e i suoi nemici” è il libro del momento. Michele Serra gli ha dedicato una sua Amaca, Paolo Gentiloni al Forum di Cernobbio ha invitato a leggerlo, Sabino Cassese ne ha scritto su “Il Sole 24 ore”.
Il suo autore, Tom Nichols dell’Harvard University, sostiene che lo sviluppo della tecnica ci ha reso più incompetenti, anziché aprire la strada alla stagione di un nuovo illuminismo, pare condurci verso un inedito oscurantismo.
Il libro porta come sottotitolo “L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. L’allarme non riguarda solo gli Stati Uniti d’America, perché la realtà descritta dal professor Nichols può essere tranquillamente trasferita in Italia.
Che oggi ci troviamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza, è qualcosa che proviamo anche noi quando l’ignoranza e il diffidare degli esperti vengono esibiti con orgoglio narcisistico. Quando l’orgoglio di non sapere le cose, di rifiutare l’opinione dei professionisti significa affermare la propria autonomia.
È la fragilità degli ego aumentati dai clic dell’internauta che non sopportano di sentirsi dire che stanno sbagliando qualcosa perché nell’arroganza delle loro identità virtuali ignorano la loro ignoranza.
I “negazionisti dell’Aids” ce li abbiamo anche noi. Tom Nichols ci racconta che un americano su sei e uno su quattro laureati non è in grado di identificare l’Ucraina su una carta geografica. Da noi il settanta per cento delle persone adulte è al disotto del livello tre di competenza richiesto dall’Europa e sono quelli i cui ego navigano in internet.
Il pericolo va ben oltre la democrazia, mina alle radici la cultura moderna, perché la fine della competenza si accompagna al rifiuto del sapere esistente, alla sua negazione, al rifiuto della scienza e di ogni razionalità obiettiva.
Ma la tecnica c’entra poco, non condivido il pensiero di Tom Nichols che internet sia per tanta parte responsabile della fine delle competenze.
Il fatto che innumerevoli cassonetti di immondizia siano variamente parcheggiati in rete, non esclude che il web offra anche ampi viali di intelligenza e saperi, dai siti delle università di tutto il mondo, alle biblioteche, ai centri di ricerca, a importanti think tank culturali e scientifici.
Incolpare del diffondersi dei falsi saperi e delle competenze fai da te le nuove tecnologie ci espone ad essere come il dio Thamus nel Fedro di Platone, che temeva l’avvento dell’alfabeto e della scrittura in quanto avrebbero portato gli uomini alla dimenticanza, alla distruzione della memoria.
Da allora la scrittura non ha smesso di lasciare le sue tracce dai libri a rotolo dell’antico Egitto, lunghi quanto una stanza, ai volumi a pagine, dalla stampa di Gutenberg alla stampa alla velocità della fibra ottica, e non è che tra i tomi non manchi la spazzatura.
Sulla manipolazione delle informazioni e dei saperi, sugli imbrogli che possono produrre le tecnologie della comunicazione dovremmo essere da tempo vaccinati, almeno dall’uscita nel 1922 del libro di Walter Lippmann “L’opinione pubblica” e dalla sortita radiofonica di Orson Wells nel 1938 con “La guerra dei mondi”.
Il problema è che internet aiuta le persone ad appagare un desiderio sempre più legittimamente covato, quello di riprendersi il controllo delle proprie vite, quello di non farsi comandare, di non farsi manovrare. Più che al crollo delle competenze assistiamo al crollo della fiducia, al diffondersi della diffidenza come una nebbia che avvolge tutto e tutti.
Semmai gli ingannevoli algoritmi dei nostri like non fanno che accrescere il deficit di cittadinanza in un’epoca sempre più complessa, un’epoca che ci chiede di nutrire meno certezze, meno scorciatoie e pensieri deboli, meno arroganze e sicumere. Meno chiusure su noi stessi e più capacità di decentramento sociale anziché virtuale. Soprattutto di avere chiara la consapevolezza che internet non ha ridotto il bisogno di sapere e di competenze, ma l’ha moltiplicato, e più la rete si allarga, più tale bisogno si fa esponenziale. È così da sempre per ogni conquista dell’uomo.
È possibile che scienza e tecnica ci abbiano resi più incompetenti e che questo sia il paradosso positivo del nostro tempo, se aiuta a renderci conto della nostra ignoranza, a misurare ogni volta la nostra distanza dall’essere competenti e da chi il sapere e la ricerca li frequenta per mestiere.

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Giovanni Fioravanti
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