Ho partecipato agli incontri promossi dai gruppi civici impegnati, sulle orme di altre città, a costruire programmi dal basso attraverso la partecipazione delle persone. Mi sembrava una bella realtà di città che apprende nell’incontro e nello scambio.
Qualcosa, poi, ha incrinato le mie attese inducendomi ad abbandonare i raduni. Nel momento di darsi un regolamento ho richiesto che venissero dichiarati come fondanti l’antifascismo e la Costituzione nata dalla Resistenza.
Per tutta risposta mi fu osservato che si tratta di valori scontati, pertanto non era necessario “porre paletti”.
“Scontati” e “paletti” sono parole che, per quanto mi riguarda, non avrebbero mai dovuto essere pronunciate. Visti gli esiti, appaiono ancora più dissennate.
L’esperienza è stata sufficiente per comprendere che il cambiamento era già penetrato e che ormai, come i risultati hanno poi dimostrato, eravamo fuori tempo massimo.
Il Pd doveva saperlo in partenza, perché subito aveva abbandonato il campo, salvo poi estrarre dal cilindro il proprio candidato sul fotofinish.
Ora siamo al dopo. È vero, siamo sempre al dopo di qualcosa, ma c’è dopo e dopo. E il dopo riguarda la “città che apprende” che vorremmo fosse la nostra città. Interroga anche la nostra inadeguatezza a raccontarla in questi anni, a convincere l’amministrazione precedente.
Alla nuova auguriamo buon lavoro, intelligenza, capacità di lettura e di ascolto.
“Le parole sono importanti” diceva trent’anni fa Michele Apicella nel film di Nanni Moretti la “Palombella rossa”. Se poi si traducono nella violenza del linguaggio e in altrettante adulterazioni, fanno del messaggio un’arma pericolosa.
Il nuovo si è presentato con una sorta di amplesso tra il neoeleletto consigliere Stefano Solaroli e la sua “Beretta”, un salto all’indietro, ai tempi della fidanzata di ferro della mia naia. Per non parlare dell’evocazione stile cinegiornale Luce per celebrare la vittoria delle armate leghiste che hanno liberato la città dagli occupanti.
La riproposizione del passato come futuro. È quello che da queste pagine abbiamo sempre temuto.
Ma del passato che avanza non ce ne accorgiamo ormai più, chiusi nei nostri bozzoli di primogenitura, di esclusione degli altri che non siamo noi. Anche apprendere in questa dimensione è fastidioso, è un inutile ingombro, potrebbe ingenerare il dubbio che, si sa, finisce per logorare.
Ormai viviamo nella nostra isola di Ikea, siamo degli Ikei. Dei singoli singolari di una esistenza prêt à porter, il sudore di capire e di condividere non fa più per noi.
Sapevamo che il cavallo aveva già varcato le mura della città, neppure notte tempo. Gli Achei hanno ceduto agli Ikei, con il loro cavallo assemblato seguendo le istruzioni di montaggio: un po’ di nigeriani, un po’ di rom, un po’ di paura, un po’ di esercito mai pervenuto, un po’ di legittima difesa.
Ikea è la voglia di cambiamento con il fai da te del kit pilotato come le Ronde, le Sentinelle in piedi e gli Insorgenti. Il cambiamento preconfezionato. È sufficiente seguire le istruzioni e te lo monti da solo. È la democrazia del self service.
Nuovo arredamento per quanto dura. Poi c’è sempre l’Ikea con il suo catalogo di nuove proposte. Una sorta di Svezia promessa in sedicesimo. L’Ikea è giallo e blu, gli Ikei giallo e verde, ma col verde che pare tendere al blu.
All’Ikea si cazzeggia un po’ per forza, un po’ per disperazione e anche il cazzeggio è precario.
Ma l’Ikea è un porto. Anzi il porto del cambiamento. Qui ogni bastimento è una promessa di confort, di sonni ristoratori per gente esausta di disperazione, sfiancata dal trascinarsi sempre verso l’ultimo girone infernale.
Tutto è componibile e scomponibile è questa la filosofia degli Ikei, la straordinaria rassicurazione della loro lingua. Una prospettiva che apre inaspettate porte di accesso e vie di fuga.
Tutto si incunea nelle menti degli Ikei come in lattine capaci di contenere indifferentemente il gasato frizzante come il naturale. Il miraggio di un welfare svedese che promette di conciliare i tempi di vita con i tempi dello shopping.
All’Ikea non c’è bisogno di capire insieme, tanto ci sono le istruzioni. Non c’è necessità di una comunità geniale, non si sente il desiderio di intessere amicizie geniali. Geniale è chi ha ideato il prodotto che ti ha conquistato e che ora desideri possedere, a te siano sufficienti le istruzioni per l’uso. Poi c’è sempre la resa, qualora emergessero difetti.
All’Ikea ci vai sempre per acquistare la libreria, che non trovi mai come la vorresti, ma tanto i libri possono anche aspettare.
Noi nel frattempo continueremo a raccontare la nostra idea di “Città della Conoscenza”.
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Giovanni Fioravanti
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