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Le parole fanno significato e oggi viviamo in una società in cui le parole a volte finiscono per imbarazzare. Forse perché con la diffusione dei social la parola circola più scritta che orale e si sa, perché ce l’hanno insegnato i latini, che scripta manent mentre verba volant. Pertanto le parole perdono della loro leggerezza e finiscono per pesare come pietre miliari. Così non si può dire una cosa per un’altra, un pensiero espresso quando sta scritto è difficile da equivocare quanto da dimenticare.
Perché non considerare tutto questo come un vantaggio? Un aiuto a formulare pensieri meno fragili, più robusti e chiari, ad esempio meno sfuggenti al confronto delle idee, più corrispondenti al nostro reale sentire.
L’uso di certi termini è stato bandito dal nostro lessico sociale, specie quelli espressione di pregiudizi non più tollerabili, ma se sono state bandite le vestigia lessicali restano i loro monumenti nella psiche di tanti nostri simili. Ciò significa che la cultura non procede per editti che siano di riconoscimento o di condanna. I tempi dei pensieri e delle abitudini sono più lunghi e complessi.
È il caso dei diritti e dell’esclusione sociale. Razza, sesso, cultura, religione, disabilità sono ancora parole calde, capaci di suscitare emozioni, di far circolare il sangue, di farlo salire al cervello. Suscitano schieramenti, difese ed attacchi. Uomo del mio tempo sei ancora quello della pietra e della fionda, tornerebbe a scrivere Salvatore Quasimodo.
A proposito di significato delle parole, ultimamente mi sono trovato a parlare di integrazione e di inclusione come se i due termini fossero equivalenti. Tanto equivalenti poi nel dizionario che ognuno di noi reca con sé non devono esserlo, se la maggioranza dei miei interlocutori dimostrava di optare più per l’integrazione che per l’inclusione, riconoscendo implicitamente che l’inclusione si collocherebbe su un gradino più in alto rispetto all’integrazione.
Impegnarsi per favorire l’inclusione sociale è per l’Onu l’undicesimo degli obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030: rendere le città più vivibili, sicure e soprattutto inclusive.
Pensare in termini di integrazione non è la stessa cosa che pensare in termini di inclusione. Ecco la responsabilità della cultura e della conoscenza. Ecco il peso delle parole, che come non sono leggere, non sono neppure intercambiabili, ognuna significa per sé.
Non è che inclusivo è divenuto di moda come traduzione dall’inglese “inclusive”, ma perché intanto includere è il contrario di escludere, di chiudere i porti o di innalzare i muri ad esempio. Includere significa che sei dei nostri, che fai numero con noi, quindi hai gli stessi diritti a prescindere dalla razza, dal sesso, dalla cultura, dalla religione, dalla disabilita o difficoltà.
È un concetto matematico, non fa una grinza, sei parte dell’insieme. Includere, uguale a inserire, mettere dentro. Ecco perché includere è più impegnativo e può rendere timidi, prudenti e timorosi, perché l’inclusione ci mette difronte con maggiore evidenza e responsabilità al diverso, alla diversità, all’altro.
Potremmo dire che l’integrazione è meno invadente, se volete meno compromettente, soprattutto meno scomoda. Integrare significa aggiungere ciò che manca, rendere completo da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo.
L’integrazione è più da buon samaritano. I tanti che si rivolgono alla Caritas sono integrati di qualcosa di cui mancano, includerli, farli diventare dei nostri significherebbe essere in grado di risolvere i loro problemi, fare nostra la loro incompiutezza.
C’è l’esclusione sociale dovuta alla povertà e ci sono categorie maggiormente a rischio di esclusione sociale come i bambini e gli over 65. È un problema dell’Europa, ma la situazione è di gran lunga più grave nei paesi del sud del mondo e in molti paesi africani.
Il problema dell’inclusione riguarda le donne e il mondo del lavoro, i giovani e il loro futuro.
Qui non si tratta di integrare, ma di appartenere a qualcosa, di appartenere al mondo del lavoro, di appartenere al futuro.
Allora non abbiamo bisogno di una politica di provvedimenti ma di una politica di progetti. Di pretendere dalla politica nazionale come da quella locale che siano scritti progetti di inclusione, di appartenenza dove ciascuno è considerato, dove ciascuno è incluso, non integrato per poi essere escluso dal mondo del lavoro, dalla partecipazione al benessere, dalla costruzione del futuro.
Inclusione significa appartenere a qualcosa, al proprio Paese, alla propria città, sentirsi accolti. Questo oggi ancora ci manca.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it