Vite di carta. La catena delle idee
Ho finito di leggere La misura del tempo, il romanzo di Gianrico Carofiglio arrivato secondo nell’ultima edizione del Premio Strega. Ne ho parlato in questa rubrica due settimane fa, ammettendo di averlo solo cominciato e riferendo alcuni spunti di riflessione che ho trovato pungenti nelle prime pagine.
Mi piacerebbe poter ascoltare di nuovo Carofiglio a Mantova, al Festivaletteratura che per questa ventiquattresima edizione si terrà dal 9 al 13 settembre prossimo. Ho visto che a lui e a Pietro Del Soldà sono state riservate la postazione più capiente, Palazzo Ducale-Piazza Castello, e la giornata più importante, cioè domenica, quando l’afflusso del pubblico è massimo. Il titolo dell’evento, il numero 85, è accattivante: Ci vuol coraggio a essere gentili.
Qualcosa mi fa pensare che parlerà più l’ex magistrato che lo scrittore Carofiglio, anche se inevitabilmente si farà riferimento al suo ultimo romanzo. Me lo fa pensare il titolo dell’evento, che credo possa riferirsi al codice etico di chi riveste un ruolo di pubblica utilità e scommetto che si parlerà dei politici. Me lo fa supporre il codice etico dell’avvocato Guerrieri, il protagonista del romanzo: un protagonista alter ego di Carofiglio, con la mappa delle sue competenze e convinzioni, con la sua idea ‘gentile’ di legalità.
Non credo che sarò presente all’evento, cercherò di recuperarne i contenuti attraverso gli altri nuovi canali attivati per questa edizione speciale del Festival nell’anno del Covid 19, in particolare le 17 trasmissioni radio e gli eventi in streaming, oppure l’Almanacco.
Ho continuato a leggere La misura del tempo e ho scoperto di quali e quante variabili narrative è fatto, soprattutto il doppio finale non mi ha deluso. Sicchè il libro ha una buona tenuta, le parti che descrivono le procedure processuali non soffocano la trama, il caso in discussione è complesso e mantiene il giusto grado di suspense, il racconto si snoda su più piani temporali e ci guadagna in spessore narrativo senza perdere in chiarezza, lo stile è impeccabile.
Non è il romanzo migliore tra quelli che hanno come protagonista Guido Guerrieri, ma si colloca tra i migliori. Una passaggio da sottolineare? Questo: Guerrieri sta aspettando che dalla discussione dei giudici riuniti in camera di consiglio esca la sentenza del processo a cui si è dedicato nelle ultime settimane. Per resistere all’ansia dell’attesa raggiunge la spiaggia deserta di san Francesco a Bari, rimane in solitudine a guardare il mare e segue i propri pensieri.
Ricorda una importante riflessione di Elias Canetti sulla verità che è sempre in movimento e muove come il vento i fili d’erba (e non sarà questo processo a offrirne una univoca e statica come “una roccia”), poi si avvia verso la pineta. E lì si sorprende a ricordare la propria giovinezza, a ripensare al trascorrere del tempo e a carpirne uno dei possibili sensi: “Col passare del tempo alcuni luoghi della città – la pineta è uno di questi – mi ricordano sempre più intensamente sensazioni e fantasticherie del passato remoto.
Un’epoca di stupore. Ecco, certi luoghi della città mi fanno sentire nostalgia per lo stupore. Essere storditi dalla forza di qualcosa. Mi piacerebbe tanto, se capitasse di nuovo. Forse potrebbe essere proprio lo stupore – se fossimo capaci di impararlo – l’antidoto al tempo che accelera in questo modo insopportabile”.
Non volevo parlare di questo libro e invece non ho potuto fare a meno di riportarne un passo, almeno uno tra i tanti che ho incontrato nelle 259 pagine non ancora lette.
Ora però il tema comune della giustizia mi spinge a incontrare di nuovo Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, per me il suo migliore romanzo. E’ uscito ormai da quasi vent’anni, nel 2001; sto pensando a quanti ragazzi l’ho fatto conoscere in questo lasso di tempo. Prima si leggeva il libro, poi si vedeva il film omonimo di Gabriele Salvatores (uscito nel 2003), cercando di gustare l’uno e l’altro e di mettere a confronto alcune soluzioni narrative adottate dallo scrittore e dal regista.
Sarò selettiva nel considerare questo bel romanzo di formazione. Toccherò soltanto due aspetti del suo tessuto narrativo e partirò da un numero, il 1978, che indica l’anno in cui accadono i fatti del racconto. E’ l’anno record per i sequestri di persona che si verificano in Italia e nel mese centrale di questo anno, che anche per la mia vita privata è stato speciale, nel mese di giugno, in mezzo a sterminati campi di grano maturo Michele Amitrano fa una scoperta. Trova un bambino della sua stessa età, 10 anni più o meno, tenuto prigioniero sottoterra, in un orrendo buco.
Il secondo punto è costituito dalla somiglianza tra i due bambini: stessa età, stessa voglia di gioco all’aria aperta. Solo che Filippo, il bambino sequestrato, è chiuso al buio da molti giorni. Chi conosce questo romanzo sa con quali dubbi tormentosi debba convivere Michele prima di prendere la sua decisione. Da una parte il mondo dei grandi che lo costringono a non andare più da Filippo: sono suo padre e gli altri padri di famiglia della borgata di Acqua Traverse collocata nel sud più povero, privo com’è anche del mare.
Sono loro che hanno sequestrato Filippo per inseguire il sogno di diventare ricchi con i soldi del riscatto. Il padre vuole portare Michele e la sorellina e la bella moglie a vedere il mare, a vivere al nord, dove ci sono le famiglie ricche come quella di Filippo e nelle case sono appesi preziosi quadri di velieri, non ci sono modeste gondole di plastica appoggiate sopra la tv a indicare i sogni.
Dall’altra c’è il senso di giustizia, quella istintiva e naturale che proviamo tutti fino dalla più tenera infanzia. Quella che ci ha fatto portare il cibo ai gatti randagi, che mi ha messi contro il cattivo del nostro gruppo di bambini, perché abbiamo voluto stare dalla parte del più debole. Quella che non ha mai diviso il gruppo in bambini ricchi e bambini poveri. Quella. Michele la conosce bene: ha già difeso Barbara, la cicciona, dalle angherie del capo banda, il Teschio.
Obbedire, dunque, a suo padre? Che è coinvolto nel sequestro e Michele lo ha dovuto scoprire. Oppure uscire di notte per andare a liberare Filippo, quando la polizia è ormai sulle tracce del maldestro gruppo di sequestratori e loro decidono stoltamente di farlo fuori?
La notte è piena di mostri che si nutrono di buio, la notte è il regno della paura. Michele pedala sulla sua bici, dopo essere scappato dalla finestra della propria camera ed esorcizza i mostri parlando da solo. Ha scelto di andare in aiuto di Filippo, perché sente che è giusto.
Anche Guido Guerrieri si pone la stessa domanda mentre il suo ultimo processo volge al termine. Ha lavorato sodo, non senza momenti di perplessità e di sconforto. Ha messo in atto tutta la propria abilità investigativa insieme al gruppo dei suoi collaboratori, ha predisposto la migliore strategia possibile per interloquire con l’avvocato dell’accusa nel rispetto delle procedure e con tutta la capacità oratoria che ha accumulato in molti anni di attività forense ha tentato di instillare nei giurati un ragionevole dubbio sulla colpevolezza del suo assistito.
Ma la domanda vera riaffiora in lui mentre cammina da solo sulla riva del mare in attesa della sentenza, la domanda vera è: il mio cliente ha davvero commesso l’omicidio del quale è accusato oppure è innocente? Si sente stanco, con la voglia di ritirarsi e cambiare vita. La sua professione così prestigiosa, la carriera brillante, quanto posto hanno lasciato alla giustizia naturale? La stessa che gli ha fatto dare riparo ai gatti randagi quando era bambino?
Nella vita dei piccoli, a cui Michele appartiene ancora (ancora per poco) la scelta è fatta e consiste nel ripetersi “Io non ho paura” e andare nella notte a liberare l’amico.
Nel mondo adulto, in cui opera l’avvocato Guerrieri la scelta segue percorsi meno lineari. Tra la sfera dei buoni e la sfera dei cattivi esistono molte sfumature, molte condizioni intermedie. Soprattutto non dipende solo dalle convinzioni di Guerrieri, né dalle sue azioni il trionfo della giustizia processuale, in tutte le sue sovrapposizioni possibili con quella naturale.
Ecco perché il doppio finale del romanzo, come dicevo due mercoledì fa, non mi dispiace. E’ un finale che ha bisogno di molto tempo per dispiegarsi e mi pare realistico. Per lo stesso motivo, perché risulta più plausibile, mi piace il finale implicito e non consolatorio di Io non ho paura.
La giustizia, che argomento impegnativo. Molti testi della letteratura mondiale ne sono attraversati fin dall’antichità. Se ne ho parlato oggi è perché un romanzo appena uscito come quello di Carofiglio mi ci ha fatto pensare di nuovo e mi ha indotta a rimettere in evidenza il libro di Ammaniti, che ho riletto più volte, con l’ottima compagnia degli studenti.
Ho scoperto un nuovo ingresso nello spazio di quest’ultimo racconto, l’ho considerato in una luce nuova. Ho spesso ragionato sul nuovo rapporto che Michele è costretto a stabilire col padre, sulla sua brusca crescita rispetto alla spensieratezza dei suoi compagni di giochi e della sorella. Oggi vedo in lui più forte il senso dell’agire secondo giustizia.
Leggo la triste notizia che riguarda la scomparsa avvenuta ieri di Andrea Battistini, il professore di letteratura italiana all’Università di Bologna che è stato allievo prediletto di Ezio Raimondi e insieme a lui ha pubblicato un testo fondamentale: Le figure della retorica. Una storia della letteratura italiana.
Un grande italianista, di cui a mia volta sono stata allieva negli anni in cui era assistente di Raimondi, alla fine degli anni Settanta. Leggo anche una sua citazione che viene riportata dal quotidiano: “nessuna prospettiva esaurisce mai la ricchezza del testo” e ritrovo ciò che mi è accaduto rispetto a Io non ho paura. Ne ho riscoperto un tratto costitutivo e mi ci ha condotta la lettura di un altro libro: citando Lovejoy, uno dei suoi autori “amici”, Raimondi la chiamava “la catena delle idee”.
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Roberta Barbieri
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