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Nel periodo di lockdown appena trascorso, la parola ‘casa’ ha assunto un significato così profondo e toccante perché è diventata coercitivamente il nostro guscio, il contenitore delle nostre esistenze, l’involucro a cui abbiamo affidato la nostra sicurezza e incolumità. CASA. Uno spazio ancestrale che accoglie significati e valori legati all’intimità interiore più profonda, per molti versi riflesso della nostra psiche e del nostro mondo più nascosto, dei nostri rapporti con gli altri, del nostro approccio con  l’esterno.

Per noi occidentali la casa rappresenta il luogo privato, intriso di molte rappresentazioni simboliche. La casa parla spesso di noi e offre una panoramica sulla nostra ‘architettura interiore’, le nostre modalità di stabilire confini, instaurare punti di contatto e incontro con gli altri, la volontà di fermare il tempo o accelerarlo, di congelare al suo interno emozioni e nodi oppure sgomberarla da accostamenti a fatti e persone che vorremmo rimuovere. Casa è bisogno di proiettare un po’ di noi stessi in uno spazio a cui affidiamo il dichiarato e il non detto, le luci e le ombre che si proiettano alterne nelle nostre vite, ciò che riusciamo a costruire e ciò che vogliamo demolire. A volte diventiamo intolleranti o critici nei confronti della nostra casa; altre volte sogniamo una casa diversa, desiderando ciò che non abbiamo per mille motivi. In qualche circostanza ci sentiamo più a nostro agio in casa d’altri che nella nostra e può capitare che il nostro benessere possa manifestarsi solo nella nostra abitazione e non altrove, blindati nelle nostre povere certezze, nei nostri egoismi garantisti. In alcuni casi vorremmo che la nostra casa diventasse anche la casa d’altri, espandendo il concetto di accoglienza e convivenza, ed esistono momenti in cui qualcuno rinuncia alla propria casa per affrontare il nulla: niente pareti, niente ambienti circoscritti, nessuna identificazione, nessuna appartenenza. E la casa diventa la strada, il rifugio è un luogo fortuito come le mura diroccate abitate in precedenza da sconosciuti, o gli spazi sotto i ponti su cui transitano tutti gli altri. La casa può diventare tempio che raccoglie e conserva immutato la sacralità di chi e cosa ci ha preceduto oppure prigione, odioso insieme di muri che limitano e contengono veti e restrizioni, dimora obbligata senza implicazioni emotive o legami intimi. Può trasformarsi in un museo nostalgico che trae linfa da oggetti ammuffiti che parlano di tempi andati oppure rappresentare il divenire, la continua metamorfosi per adattarsi al presente e ai tempi che verranno, in un futuristico slancio di cambiamento. La casa si presta a qualsiasi tipologia, estrazione, significato, rappresentazione perché la casa siamo noi, e ciascuno di noi intende a modo proprio il luogo in cui essere, esistere.

In letteratura il luogo ‘casa’ è quanto di più interiore, carico di ricchezza valoriale, incredibilmente evocativo si possa descrivere.
In La casa degli spiriti di Isabel Allende (1982), la casa è la dimora delle voci del passato, di coloro che avevano abitato e fatto la storia di quei muri e di quel Paese, il Cile, stravolto dal golpe del 1973 che decreterà la fine di ogni forma di democrazia. Una storia evocata da Clara, l’eroina di una saga familiare che, alla fine, è la storia di un’intera nazione, che passa attraverso una casa ‘memoria’, destinata a tramandare i ricordi e i valori di tempi migliori, più dignitosi ed equi per tutti.
In  Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1958), rifiutato e pubblicato dopo molto, la ‘casa’, Palazzo Salina in Sicilia, rappresenta ciò che sta per subire irreversibili cambiamenti epocali nell’epoca risorgimentale: un luogo fastoso con sette balconi sulla piazza, composto da 200 metri di fabbricati di stile differente, armoniosamente uniti da tre vasti cortili e un ampio giardino cintato. All’interno lampadari scintillanti, arazzi, tappeti persiani di grande pregio, oggetti antichi e maioliche prestigiose. Simboli di un mondo in declino, ormai non più in grado di rappresentare una società approdata a un irreversibile tramonto. In Casa di bambola, l’opera teatrale di Henrik Ibsen del 1958, la casa diventa l’unico sfondo dell’intera narrazione: il salotto di casa Helmer è l’unica stanza in cui viene ambientata la trama e in cui si muovono Torvald e la moglie Nora. Spazio ristretto, nel quale si concentrano le vicende di una società medio borghese meschina e priva di scrupoli, in cui avviene il risveglio di una donna che lotta per le proprie idee, una prima raffigurazione di donna moderna, un’antesignana di femminista disposta ad affrontare tutto per affermare le proprie convinzioni.

E la casa assume un ruolo e una funzione  ancora diversa nella fiaba di Hänsel e Gretel dei fratelli Grimm, ambientata in una foresta tedesca del XVII secolo, durante un periodo di carestia e lotta alla sopravvivenza.  I due bambini, figli di un taglialegna che si è risposato dopo la vedovanza, vengono abbandonati nel bosco e lasciati al loro destino. Attirati da una casetta di marzapane che rappresenta abbondanza e possibilità di sfamarsi, vengono irretiti da una strega che li destina alla morte e controlla il loro grado di salute per destinarli al forno . Sopravviveranno grazie ai loro stratagemmi e alla voglia di vivere, traendo dalla situazione grandi benefici.

Noi siamo un po’ Hänsel e Gretel, non fosse altro per la situazione di reclusione in cui siamo stati costretti, all’ingrasso e all’inattività, sottoposti agli obiettivi di osservazione e attenzione, speranzosi e fiduciosi, protesi a una condizione di miglioramento nelle nostre condizioni di vita, nelle aspettative, ancorati alla fiducia in chi può e deve offrirci una visione chiara di ciò che può aspettarci.
Non è la nostra casa di marzapane dalla quale usciremo vivi e arricchiti – tutt’altro – ma vorremmo che quest’esperienza al disopra delle nostre possibilità di sopportazione psicofisica ci lasciasse un margine d’azione: quello di tornare ‘a casa’ più consapevoli, sicuri che non siamo soli e insieme è possibile ricostruire, certi che l’affrontare analoghe situazioni future non ci troverà impreparati dal sistema, dalle conoscenze, dalle scelte politiche, da quell’umanità che dovrebbe guidare ogni possibile azione.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).


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