Mia madre Anna si trasferì a Pontalba quando si sposò. Prima abitava a Cremantello, il paese in provincia di Varese dove abita suo fratello e dove le mie cugine gestiscono il bar Ghepardi.
Quando mia madre abitava a Cremantello la sua casa non era quella annessa al bar dove ora vivono gli zii, ma era una casa di campagna con cortile, giardino, orto, rimessa, fienile e uno strano stanzino stretto e lungo, con una sola piccola finestra, che tutti chiamavano “il cantinetto”. Credo che lo chiamassero così perché in origine era destinato alle botti di vino appena fermentato. Il cantinetto era posizionato sul versante nord della vecchia casa e al suo interno la temperatura restava costante per quasi tutto l’anno. Si sentiva entrando uno strano odore di chiuso e muffa, forse dipeso dal fatto che il pavimento era di terra battuta, sempre un po’ umido.
In quella vecchia abitazione c’erano tanti oggetti e mobili di sconosciuta provenienza. Nessuno si ricordava che strada avessero fatto per arrivare lì, né chi fossero stati i primi proprietari della catena ereditaria che aveva destinato tutto quel mobilio nella vecchia casa della nonna Adelina. Si sapeva solo che appartenevano alla famiglia Ghepardi da generazioni. Mia madre, Anna Gherpardi, era nata tra quelle mura nel 1941.
Io ricordo che al centro del cortile c’era un meraviglioso albero di pere, che produceva dei frutti così dolci e sodi, da attirare l’interesse di buona parte del vicinato. Avevano la buccia color ruggine e dei puntini più scuri sulla parte “panciuta” del frutto. Maturati sull’albero, sotto il sole che arroventava il cortile, erano delle prelibatezze. Tutta via Don Mazzolari invidiava quelle pere e provava a farsele regalare dalla nonna, non appena le condizioni umorali della vecchia Adelina sembravano propizie.
La nonna aveva infatti un carattere particolare, bisognava incontrarla nel momento giusto, altrimenti invece delle pere ti regalava qualche vecchio maglione da disfare e ti diceva entro quanti giorni le servivano le matasse di lana già lavate. I gomitoli, gratuitamente arrotolati dai malcapitati vicini, servivano per confezionare le coperte che venivano vendute durante la festa della Madonna d’Ottobre e il cui ricavato andava alla Caritas di Cremantello. Il dilemma non era da poco: cercare di farsi regalare le pere e rischiare di avere in cambio maglioni da disfare, oppure evitare i vecchi maglioni e non poter assaggiare le pere? Il rischio valeva la pena di essere corso. Le pere erano irresistibili.
Le vicende di Cremantello sono tante e molto curiose. La vita rurale e agricola, con tanto di seconda guerra mondiale alle porte, ha reso quel posto il potenziale canovaccio di un vero romanzo che prima o poi qualcuno scriverà.
Tra le tante stranezze, vicende e curiosità che ho sentito raccontare su quel borgo, quella che mi fa sempre sorridere quando ci penso, è il nome dei vicini di casa della nonna Adelina. Si chiamavano Betulla e Tomeo e tutti li chiamavano Tulla e Teo. Da dove venissero quei due nomi esattamente non si sapeva e nemmeno ci si spiegava come due persone, con nomi del genere, avessero potuto sposarsi e vivere insieme serenamente. Ma si sa, la vita reale è molto più bizzarra della fantasia. Ciò che riusciamo a inventare assomiglia quasi sempre a qualcosa che abbiamo già visto e sentito, che fa parte della nostra cultura, del nostro patrimonio genetico. Ciò che veramente è, può davvero stupire. Tulla e Teo erano veri, chi mai avrebbe potuto inventarsi nomi del genere. Nessuno aveva chiaro il numero civico dell’abitazione di questi due personaggi. Non serviva. Quando qualcuno d’estate andava in vacanza e mandava loro una cartolina da qualche località di mare, scriveva sull’indirizzo “Betulla e Tomeo – Cremantello (VA)” e la missiva arrivava senza colpo ferire.
Due nomi davvero strani: Betulla e Tomeo, due diminutivi un po’ meno strani: Tulla e Teo (come una coppia di due comici da prima serata in TV), due cognomi assolutamente inutili. Nessun’altro a Cremantello aveva quei nomi, a cosa serviva aggiungere i cognomi?.
Tulla e Teo facevano i macellai. Aprivano la bottega tre mattine la settimana, il lunedì era giorno di chiusura e il resto del tempo-lavoro era destinato a preparare la carne per la vendita al dettaglio. Comprare le vacche, macellarle, sezionarle, togliere le interiora, lavare la trippa, segare le ossa e preparare dei bei pezzi di carne da vendere. A Betulla piaceva cantare e lo faceva sempre quando andava a lavare la trippa (lo stomaco della mucca) al fosso. L’acqua corrente puliva perfettamente le interiora. Lo stomaco del bovino diventava bianco e luccicante, pronto da cucinare la domenica. Tagliato a listarelle e bollito con diverse verdure, era uno dei piatti poveri più apprezzati e particolari del paese.
La canzone che Betulla prediligeva quando andava al fosso a lavare la trippa era “La bella la va al fosso”. Una canzone popolare dell’area settentrionale del nostro paese, una delle più conosciute della tradizione lombarda. Ne esistono diverse versioni, molto simili tra loro.
Inizia più o meno così:
“La bella la va al fosso/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ la bella la va al fosso,/ al fosso a resentà.”
[La bella va al fosso/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ la bella va al fosso,/ al fosso a lavare i panni.]
Betulla invece dei panni lavava la trippa, ma tutto il resto coincideva.
La canzone prosegue narrando che “la bella che lava i panni”, perde nel fosso il suo anello e non sa come fare a recuperarlo. Mentre è indecisa sul da farsi, vede un pescatore e gli chiede se può ripescarglielo. In cambio offre al pescatore un “regalo” in natura.
“E quan’ l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanei, remolazz, barbabietol e spinazz/ tre palanche al mazz,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.”
[E quando l’avrai pescato/ un regalo ti farò. […]/Andrem lassù sui monti/ ravanelli, rape, barbabietole e spinaci/ tre soldi al mazzo,/ andrem lassù sui monti,/ sui monti a far l’amor.].
Accidenti che ricompensa per il recupero dell’anello!, forse dipendeva dall’avvenenza del pescatore, sarà stato giovane e bello, e forse anche dall’importanza di recuperare l’anello, magari era l’unica quantità d’oro appartenuta alla bella lavandaia … o forse semplicemente quelle parole permettevano di comporre una rima necessaria al ritornello e, di conseguenza, la canzone era venuta così.
Sta di fatto che Betulla e Tomeo erano conosciuti e stimati macellai e nessuno ha mai saputo che ci siano stati tra loro screzi, malumori o strani amori clandestini. Di certo c’era solo quella canzone innocua che cantava Tulla e non stupiva nessuno. Sicuramente non Teo.
Ma si sa, gli interessi comuni, soprattutto in tempo di guerra, permettevano di mangiare e, in quanto tali, erano imprescindibili. Senza la pagnotta sul tavolo per molti giorni consecutivi, l’amore non si faceva né col marito, né col pescatore, né col garzone delle consegne, né con altri. Credo ci fossero diversi maschi “interessanti” che avrebbero pasteggiato volentieri con un po’ di ossa e di polpa di carne appena frollata. Quale poteva essere il cambio? La carne fresca sarebbe stata un bel modo per festeggiare come si deve la domenica. La guerra è la guerra, il rispetto del corpo è un grande lusso e, sicuramente tutte le volte che si può, una virtù.
N.d.A.
I protagonisti dei racconti hanno nomi di pura fantasia che non corrispondono a quelli delle persone che li hanno in parte ispirati. Anche i nomi dei luoghi sono il frutto della fantasia dell’autrice.
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Costanza Del Re
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