Ero rimasta al concetto di tyche, equivalente greca della fortuna dei Romani, nel suo volto ancipite di buona e di cattiva sorte, qualcosa di simile al caso, ma con la convinzione aggiuntiva che a determinare il corso degli eventi possiamo dare un contributo con la nostra forza di intrapresa dentro la vita. Machiavelli l’ha chiamata virtù e le ha assegnato il cinquanta per cento delle possibilità; personalmente credo che la percentuale sia fluttuante da persona a persona.
Ora però mi esce da un libro recente di Fabio Bacà, la sua opera prima dal titolo Benevolenza cosmica, la riflessione intrigante di Kurt O’Reilly, un ricco e giovane londinese la cui vita ha subito un deciso cambio di rotta.
Kurt si interroga sui “picchi statisticamente anomali di buona sorte” da cui si sente colpito, visto che da circa tre mesi a questa parte nulla gli va storto. Mi intrigano le “tagliole semantiche” in cui cade, mentre cerca di capire cosa gli sta succedendo, mentre chiama in causa parole come karma, come destino, o ancora cerca ragguagli nella statistica, nella quale è particolarmente esperto.
La narrazione in prima persona immette il lettore dentro la testa del protagonista e con questa inquadratura in soggettiva il libro procede in un viaggio strampalato fatto di incontri con terapeuti, amici e consulenti a vario titolo, a cui egli chiede aiuto.
Si dimentica perfino degli appuntamenti di lavoro, o li affronta distrattamente. Perde i contatti con la sua efficientissima segretaria, pensa poco alla moglie da cui vive separato pur occupando un piano della stessa casa.
Nella sua solitudine cerca le categorie idonee a rapportarsi con l’universo, proprio ora che la benevolenza cosmica lo ha abbracciato. Chi potrà rispondergli? Due interlocutori in particolare: una elegante psicologa dal nome fortemente simbolico, Lucia, che ha molto viaggiato, lavorando come modella e molto si è occupata di arte e letteratura. E il “vecchio professore di filosofia” che lo riceve nella propria casa.
La risposta di Lucia contiene un altro caso umano come il suo: “Parecchi anni fa, in un villaggio dell’India, ho conosciuto un uomo che mi disse di avere il suo stesso problema: da mesi la fortuna lo favoriva in maniera vergognosa. E non solo non riusciva a goderne, proprio come lei, ma si sentiva terribilmente in colpa.
Un senso di colpa che non era rivolto a un generico prossimo… bensì a un preciso individuo…legato karmicamente a lui in virtù di chissà quali precedenti incarnazioni. Qualcuno che doveva trovare a ogni costo, prima che gli opposti eccessi fossero fatali a entrambi”.
Kurt ottiene una traccia su cui camminare, dentro di sé e fuori nelle strade di Londra. Si mette alla ricerca del suo “antagonista spirituale”, colui o colei che è rimasto colpito da eventi negativi in modo speculare alle sue fortune. Per sanare la propria disperazione. Per ristabilire un equilibrio tra buona e cattiva sorte dentro le esistenze di entrambi.
Kurt dice di credere di più nel destino, “in quanto evoca un caos imperscrutabile da cui erompono accidentali premi o punizioni, esiti a cui la condotta degli esseri viventi non sarebbe direttamente collegata”.
Eppure le acque in cui nuota si intorbidano ora che inizia la ricerca dell’altro a cui lo lega un karma opposto. Il karma nel libro è definito come “la somma dei comportamenti di un essere umano e dei crediti (o debiti) spirituali che ne derivano, contabilizzati con scrupolo certosino da una presunta assise di divinità”. “Una specie di portfolio”, ho scritto in margine a queste righe. Un bel cambiamento nella bussola valoriale di Kurt.
Ora anche lui suppone che ci possano essere degli “ombrosi demiurghi, da qualche parte lassù”?
Ma c’è dell’altro. Mi intriga una riflessione che fa davanti al suo professore di filosofia, ci ritrovo l’epicentro del sisma speculativo che attraversa il libro. Il professor Lack lo ha ascoltato e ora riflette con lui sui doveri che comporta l’essere adulto, sulle responsabilità che conseguono alla fortuna che gli è capitata: la più grande sarebbe fare del bene al prossimo.
Mi pare funzionale alla storia questa idea della condivisione del bene che sgrava il protagonista dal peso troppo oneroso della benevolenza universale. Ma soprattutto mi colpiscono le parole che egli sceglie per spiegare al suo interlocutore quanto sia disumana la sua sfacciata fortuna: “Non voglio vivere una vita in cui mi sia proibito di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d’ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose…
E io non voglio essere qualcosa di diverso da un uomo. Non voglio svegliarmi ogni mattina con un sorriso idiota in faccia al pensiero di tutte le cose belle che accadranno, avendo la certezza che accadano. Non voglio la certezza, intendo: la speranza è già sufficiente”.
Qui sta il punto centrale della idea di umanità che conosco e qui avviene l’incontro con un altro libro, un libro che ognuno di noi conosce per avere al centro l’eroe per eccellenza della cultura occidentale, Ulisse.
Quando Calipso tenta di farlo restare con lei sull’isola di Ogigia a vivere la vita beata degli immortali, Ulisse sceglie di rimettersi in mare e di restare un mortale. Dal libro V dell’Odissea escono le parole suadenti della ninfa, che paventa per il suo amato le difficoltà del viaggio “sul mare scuro come vino” e lo vorrebbe accanto a custodire per sempre la dimora in cui si è fermato da sette lunghi anni.
Nel risponderle che sceglie di ritornare a Itaca a ritrovare la propria moglie e la casa, Ulisse rifiuta l’ultima seduzione della ninfa, rifiuta il nascondiglio nebbioso di Ogigia per affrontare il rischio della vita dei mortali. Per riappropriarsi del suo destino eroico di guerriero, di sposo, di padre, di re.
Anche per un personaggio contemporaneo come è Kurt, diseroicizzato e in conflitto con i paradossi del quotidiano, è il ritorno a casa la chiave risolutiva dei propri conflitti. Un ritorno alle persone che abitano la sua casa, con la sorpresa di avere dato inizio a un nuovo futuro.
Non dico altro, ma le mie parole lasciano intendere che Benevolenza cosmica ha un finale più che lieto. Questo non toglie spessore al viaggio che Kurt ha compiuto fuori e dentro se stesso per configurare la propria vita secondo una formula nuova.
Se Ulisse, molte pagine scritte prima di lui, ha dato inizio al prototipo dell’uomo moderno che sfugge alla determinazione divina, acquisisce consapevolezza di sé e trova margini di autodeterminazione e di scelta, Kurt è sottoposto al potere disgregante della complessità e approda con la propria ricerca e col sacrificio di sé al ritrovamento di un equilibrio e del senso.
A stabilire un patto nuovo: una vita normale, “in balia delle mattane della statistica, del karma o del destino come chiunque altro”, ma non per sé. Per l’antagonista spirituale a cui scopre di avere dato vita, a cui riserva tutto l’amore di cui è capace.
Nel testo faccio riferimento a due testi:
- Fabio Bacà, Benevolenza cosmica, Adelphi, 2019
- Omero, Odissea – libro V, in Libri da leggere, Einaudi scuola, 2012, a cura di Eva Cantarella e con la traduzione dal testo greco di G.A.Privitera
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Roberta Barbieri
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