Poesia, musica araba amorosamente nostalgica, dolcezza e buoni sentimenti, sguardi teneri, persi e complici, sono gli ingredienti ben amalgamati di questa pellicola, di qualche anno fa, del giovane regista israeliano Eran Kolirin.
Accompagniamo, allora, silenziosamente, la simpatica banda musicale, impeccabilmente vestita di azzurro, della polizia di Alessandria d’Egitto che, invitata ufficialmente all’inaugurazione del centro culturale arabo della città israeliana di Petah Tikva, si ritrova, per un malinteso, nel villaggio sperduto desertico di Bet Hatikva.
Il giovane Khaled, distratto dalle belle donne, dunque un po’ dongiovanni, mal comprende le indicazioni per arrivare a destinazione e la banda arriva nel posto sbagliato. O meglio, in quello sbagliato che poi, per altri versi, si rivelerà davvero quello giusto. Qui, dove sia gli uomini che Dio paiono essersi dimenticati di tutto, di luoghi e abitanti, i componenti della banda verranno ospitati nelle case di vari israeliani amici della padrona del bar dove sono stati generosamente accolti, ossia dalla bella e sensuale Dina, dai lunghi capelli neri.
Senza mezzi di trasporto fino al mattino successivo, giorno del fatidico concerto, l’incomunicabilità iniziale verrà presto trasformata in tenerezza e condivisione di vite, passati, confidenze e sentimenti.
Il colonnello-direttore della banda, l’arabo Tewfik, segue amorosamente, ma con forza, i suoi ragazzi, li dirige, amando profondamente la musica e l’energia che essa emana e diffonde, quasi miracolosamente. Personaggio curioso e particolare, lui.
Il film è carico di poesia, lo è particolarmente quando le vite dei vari personaggi si mescolano, quando si comprende che non importa essere arabi o israeliani, per essere uguali, per provare gli stessi sentimenti, le stesse paure. Non contano luoghi, lingue, razze, etnie, culture, origini e religioni per attendere ogni notte, di fronte alla cabina telefonica, la chiamata del proprio amore, per essere seduttori che amano Chet Baker, per essere un ragazzo imbranato, timoroso e impacciato con le donne, per vedere, come Dina, nel direttore-colonnello, l’Omar Sharif che ha dolcemente sedotto i propri pomeriggi di giovane ragazza, per essere come il vice direttore, eterno secondo, che non riesce a terminare la sua opera prima composta per il suo fedele clarinetto.
Tutti abbiamo le stesse capacità di sognare, di piangere e di ridere, indipendentemente da chi siamo e da dove veniamo, di vedere un grande parco alberato in uno squallido e grigio parcheggio di cemento, di respirarne aria pura solo immaginando.
I bagliori di speranza ci sono sempre, anche sul ciglio polveroso della strada che tutti percorriamo, a volte con fatica e disperazione, a volte, invece, con immensa gioia, spensieratezza e gratitudine.
Tutti possiamo sentire, in ugual misura, la musica e, quando Dina chiede a Tewfik: “Che bisogno ha, la polizia, di Oum Kalthoum?” (famosa cantante e musicista egiziana di inizio secolo) e lui risponde: “È come chiedere ad un uomo perché ha bisogno dell’anima”, capiamo che la nostra anima è qui con noi, che c’è amore, indipendentemente da chi siamo e da come siamo stati cresciuti. Il film è una vera e propria fiaba dello straordinario nell’ordinario. L’idioma utilizzato è quello dell’amore, che va oltre le barriere, ed ecco allora che, improvvisamente, si comunica. Tutti.
Di Eran Kolirin, con Sasson Gabai, Ronit Elkabetz, Saleh Bakri, Khalifa Natour, Shlomi Avraham, Israele, Francia 2007, 90 mn.
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Simonetta Sandri
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