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di Lorenzo Bissi

Sono profondamente amareggiato per ciò che in questi ultimi giorni sta accadendo a Kevin Spacey. Non riporterò qui tutti i fatti e le dinamiche di come lo scandalo delle molestie sessuali nei confronti di giovani ragazzi da parte sua sia venuto fuori, ma mi limiterò a parlare e a fare una riflessione più generale. Non è questione di essere a favore o contro Kevin Spacey, qui è in discussione il valore dell’Arte stessa.
L’attore Anthony Rapp, oggi 46enne, pochi giorni fa ha dichiarato al giornale americano ‘Buzzfeed News’ di essere stato molestato sessualmente da Kevin Spacey all’età di 14 anni. Ha detto di aver trovato la forza di parlare dopo la pubblicazione delle accuse, anche in questo caso di molestie sessuali, contro Harvey Weinstein. E la caccia alle streghe si è aperta.
La conseguenza è stata che Netflix ha interrotto la serie ‘House of Cards’, in cui Spacey aveva il ruolo principale, e la International Academy of Television Arts and Sciences ha revocato l’Emmy Award che Spacey avrebbe dovuto ricevere in dicembre a New York.
Le confessioni hanno dato avvio a un processo mediatico che, per definizione, non tiene conto degli elementi del processo vero e proprio (che non mi risulta sia ancora stato avviato, semmai dovesse esserlo), ma vede l’opinione pubblica come giuria e condanna l’imputato sulla base di simpatie o antipatie. Eppure è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo, nell’articolo 11, ad affermare che “ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo”.
Senza contare che è inutile e ipocrita revocare un premio che riguarda i risultati creativi di un attore, giudicando la sua condotta di vita e non esclusivamente le sue performance: ciò di certo non cancella il passato, né, a mio parere, manda un messaggio positivo sulla concezione di Arte. Infatti, questa scelta sembra stabilire dei criteri di giudizio nell’assegnazione del premio in cui si legano inscindibilmente ala vita di un’artista alle sue performance. Una mossa, quella della International Academy, frutto di una aderenza cieca alla imperante morale contemporanea del ‘politicamente corretto’.

Ora veniamo a ciò che più mi interessa, il concetto di Arte; per definirlo partirò da lontano.
Gli Antichi Greci, nella loro falsa democrazia, nel loro imperante maschilismo, nella loro apertamente violenta società, non si sono lasciati sfuggire una cosa: la componente di superiorità che l’Arte porta con se nelle sue manifestazioni.
Platone nel ‘Fedro’ parla di quattro divine manie: profetica, mitica, artistica ed erotica. Mi soffermerò su quella artistica. Durante questo processo, l’artista, che è un essere umano, è visto come un vaso (da cui la parola ‘invasamento’) che passivamente riceve l’ispirazione dalle Muse. Queste, spiritualmente, entrano nell’essere umano e lo utilizzano come semplice mezzo attraverso cui produrre un’opera. Il risultato è un’opera a sé stante, di natura divina, e completamente scissa dalla volontà dell’artista, figurarsi poi dalla sua vita.
L’uomo che svolge la funzione di artista è un mero strumento nelle mani della divinità e quando si approccia la sua opera, ci si mette in contatto con la divinità senza alcuna considerazione per l’autore.
Se ciò non è abbastanza convincente, o troppo ‘mitico’ e surreale, ecco un altro esempio. Come facevano in antichità a interpretare ruoli femminili nelle recitazioni teatrali, se le donne non potevano recitare? Indossavano una maschera, che in latino era detta ‘persona’.
Nel momento in cui l’attore saliva sul palcoscenico, con la maschera sul volto, era richiesta la complicità del pubblico, lo sforzo di immaginare il personaggio stesso davanti a se, e non l’attore mascherato. Mediante questo, l’attore non era più il signor Tizio Caio, ma un’altra ‘persona’, per esempio Medea, Edipo, Oreste o chiunque altro.
Dicendo ciò non voglio paragonare gli attori Greci con quelli contemporanei. Voglio sottolineare che i Greci avevano capito che la maschera, intesa come ‘persona’, aveva la funzione di legittimare chiunque si sentisse in grado di svolgere il ruolo d’attore a fare.
Questo perché anticamente l’Arte richiedeva, anche da parte del pubblico, uno sforzo immaginativo, che evidentemente al giorno d’oggi non siamo più disposti a fare. La conseguenza è la perdita dell’essenza superiore dell’Arte. E pensare che Oscar Wilde ha dato la sua vita per insegnarci che l’arte non è morale né immorale, ma va al di là del Bene e del Male, e per questo non deve essere giudicata secondo criteri etici.
Non posso fare a meno di arrabbiarmi quando sento persone che liquidano Pasolini chiamandolo “sporco pederasta”, Woody Allen “pervertito”, Lewis Carrol “pedofilo fissato con la sua piccola Alice”, o Pirandello “leccapiedi fascista”. Con questa logica Caravaggio era un assassino e Socrate probabilmente un marito violento. Ciò non toglie che le loro opere vadano al di là della loro vita, e come tali debbano essere apprezzate nella loro indipendenza. Oggi per molti non è più così, perché non si è più capaci di estrapolare l’opera dal contesto.
Qui non è questione di Kevin Spacey colpevole o innocente. Se il pubblico non è più disposto a svolgere attivamente la parte dello spettatore, viene meno tutta l’impalcatura su cui si regge la sottile esistenza dell’Arte, il piccolo segreto che l’arte è tutta finzione, capace di mettere in contatto l’artista e il suo pubblico. Da quello che si vede, ahimè, questa illusione è già stata abbandonata da tempo, e non sembra ci siano le condizioni per praticare un’Arte vera, un’Arte autentica.

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Redazione di Periscopio



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