E’ dei giorni scorsi la prima grande commemorazione delle vittime della strage nella moschea di Noor a Christchurch, in Nuova Zelanda, avvenuta il 15 marzo. Anche molte donne non musulmane hanno indossato un velo improvvisato, un fazzoletto, una sciarpa sul capo in segno di lutto e vicinanza alla comunità colpita; lo ha fatto anche una poliziotta, reggendo un mitra e una rosa rossa. Ma accanto a questa immagine, rimane scolpito nella mente il grande, inaspettato tributo, il giorno successivo al massacro, davanti al luogo di culto: quello inscenato dal gruppo di motociclisti Māori, Manya Kaha Aotearoa. Un Haka in onore dei cinquanta scomparsi nell’attentato, una manifestazione di profondo rispetto per i morti, le loro famiglie e la loro comunità.
E’ la danza tradizionale dell’etnia Māori neozelandese, che ha saputo mantenere da sempre la sua forte identità e la sua cultura, difendendone tradizioni e tratti caratteristici. Ha mantenuto fino a oggi perfino il proprio re, figura autorevole e prestigiosa, pur non ricoprendo alcun ruolo formale e costituzionale. Un popolo di 750.000 unità, da tempo convertito al cristianesimo, che non ha mai cercato la completa integrazione con le altre etnie, anche se incoraggiato dal governo attraverso programmi di facilitazione alla convivenza, con l’obiettivo di proteggerne e preservarne al contempo la specificità. Un popolo fiero, davanti al quale nel 1997 l’esecutivo neozelandese fece ammenda e riconobbe i danni morali e materiali subiti durante la colonizzazione inglese, mentre la regina Elisabetta II, capo dello Stato, si scusò formalmente incontrando l’allora sovrana Māori, Tea Ata, autentica rappresentante e ambasciatrice della cultura di questo popolo.
Davanti all’efferato attentato di Christchurch i Māori c’erano; sono comparsi improvvisamente, a consegnare un segno della loro contrizione nell’unico modo solenne, grave, intenso ereditato dai loro avi e sempre presente nei loro cerimoniali e avvenimenti importanti: la Haka. Considerata erroneamente una danza di guerra, è la rappresentazione di gioia e di dolore, di liberazione, di sfida, esultanza, accoglienza, disprezzo, che nascono dall’interiorità più profonda. Una complessa composizione di suoni e movimenti del corpo, mani, piedi, braccia, lingua, accompagnati dal tono della voce, eseguiti secondo rigorosi canoni disciplinari che un leader detta al gruppo, incitando o allentandone i ritmi, scandendo i gesti, esortando. L’Haka è emozione pura, forza, espressività e passione con cui ogni volta viene riconfermata l’identità di razza; un rituale che impressiona per la sua potenza e che deriva dallo spirito guerriero che non hanno mai accantonato.
Oggi è praticato nei college, nelle università, nell’esercito e nelle celebrazioni storiche della Nuova Zelanda, ma tutti ricordiamo un’indimenticabile interpretazione di Haka nello stile Ka Mate, del 2005, eseguita dagli All Blacks, la squadra nazionale di rugby neozelandese che, sotto la guida del suo leader, il capitano Tana Umaga, rimase agli annali della storia di questo sport, seppur non rigorosamente di derivazione strettamente originale, ma modificata per l’occasione. E se accostiamo questo rito tribale agli spettacolari tatuaggi diffusissimi tra la popolazione, allora comprendiamo meglio come nella cultura Māori la forte volontà di autoidentificazione passi anche attraverso forme rappresentative artistiche notevoli.
Il Moko è il tradizionale disegno tattoo con cui vengono decorati i volti dei guerrieri un tempo come ora, che raccontano attraverso di esso la propria storia personale. Le donne esibiscono il riconoscibile tatuaggio sul mento per indicare il loro legame matrimoniale. Un popolo a volte indecifrabile, ma che sa esprimersi potentemente con i segni della sua cultura particolare e che ha lasciato tracce indelebili anche nella storia di molti altri popoli, partecipando alle loro vicende belliche. Durante la Prima guerra mondiale 500 Māori vennero arruolati nelle file dell’esercito britannico e formarono il Native Contingent, chiamato anche Māori Pioneer Battalion. Si distinsero nelle battaglie di Verdun e Arras, impiegati nei combattimenti ma anche nello scavo di trincee e tunnel a ridosso della linee tedesche, data la loro riconosciuta abilità in queste operazioni. La loro presenza durante la Seconda guerra mondiale è distinta dal coraggio e dal valore con cui si misurarono nella battaglia di El Alamein e nel nostro Paese, nella battaglia di Montecassino. Nel 1939 vennero arruolati 750 volontari Māori che, su sollecitazione dei loro capi, crearono un’unità esclusiva di nativi che non si risparmiarono per temerarietà, resistenza e capacità bellica. Lo stesso fedelmaresciallo del Reich, Erwin Rommel, “la volpe del deserto”, che li aveva notati nei combattimenti in nord Africa, non risparmiò apprezzamenti nei loro confronti, che contribuirono ad avvolgere di un’aura leggendaria questa popolazione. “Datemi il battaglione Māori e vincerò la guerra” sono le parole famose di Rommel. Il memorabile 28° battaglione Māori neozelandese fu anche il primo a entrare nella città di Empoli nell’estate del 1944, tra le macerie lasciate dai tedeschi in fuga. Non sappiamo se “Ka mate, Ka ora” (è la morte, è la vita), le parole che ricorrono potenti all’inizio dell’Haka come segno di ricostruzione e rinnovamento, risuonarono nelle viuzze della città devastata, come grido di liberazione e vittoria. Sappiamo però che le ultime invocazioni che tuonano nell’Haka sono: “Whiti te rā!” “il sole splende”; “Hī!” “Alzati!”.
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Liliana Cerqueni
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