“Dalla mia finestra osservo le terrazze irte di antenne e i minareti / i cui contorni un sole timido cerca di delineare sullo sfondo blu del cielo. / Questa notte la pioggia è scesa intensa… / Dal cortile ancora umido giungono grida argentine di giocatori di pallone in erba / frammiste alle imprecazioni intraducibili della vicina e a un vago profumo di zagare. / L’autunno, quest’anno, sembra non aver fretta di entrare nella capitale…”
(H.Bouzaher, “… et nourrir la mémoire”)
Algeri “la blanche”, una strada che porta al mare e un’ombra italiana sul litorale…
Arrivo ad Algeri
Questa volta sto rientrando. Di ritorno da Orano, dopo un lungo weekend di lavoro all’Università, mi fermo ad Algeri. Fermata necessaria per attendere l’aereo che solo la sera mi riporterà a Malpensa. All’aeroporto di Algeri mi vengono a prendere. Prima di andare a un incontro ufficiale, mi viene fatto un bellissimo regalo: per circa tre ore viaggio per la capitale algerina su una vettura con autista ed aria condizionata. Che fortuna. Non so ancora che qualche anno dopo ci sarei andata a vivere per un po’ di tempo. Tre ore possono bastare ad aver voglia di conoscere e far conoscere meglio una città colorata e pulsante. Dieci minuti mi bastano per desiderare di cercare “qualcosa di italiano” per voi. Allora andiamo..
Il sogno della città, fra cemento e tradizione
Mi ritrovo a leggere alcune pagine di Jolanda Guardi, docente di lingua araba all’Università di Milano, e, con la sua scrittura che diventa fotografia, accompagno con il cuore e il pensiero le sue bellissime righe: … “la strada che dal mare porta sui colli di Algeri sale snodandosi come un lungo serpente addormentato al sole, il cui dorso centinaia di insetti – le auto – percorrono incessantemente in un senso e nell’altro. Il salmastro si mesce al tanfo di spazzatura ed edifici d’epoca e palazzi ristrutturati e ridipinti in bianco e azzurro si alternano a costruzioni fatiscenti. Eppure, questa città al di fuori di ogni norma, possiede un fascino incontestabile, alimentato dal carattere segreto che rivestono le sue origini, avvolte nella leggenda secondo la quale Ercole e i suoi compagni crearono un primo luogo abitativo in questa zona”. Non posso non pensare che queste sono esattamente le parole che avrei usato pure io percorrendo le stradine irte di Algeri. Forse avrei aggiunto una sensazione di luce, qualche altra frase tipo “bellezza addormentata che pare sognare misteri lontani” oppure avrei espresso un desiderio incontrollabile di entrare in una delle moschee luccicanti ed immense o di immergermi senza timori nella Casbah brulicante ed arrampicata sui fianchi sinuosi della città. La parola “segreto” sembrava comunque volermi accompagnare un poco ovunque, fra quello che si vedeva e quello che s’intravvedeva, insieme al vento che faceva di tutto per sollevare quelle specie di bavagli bianchi che ricoprono il volto di molte donne, quei bavaglini immacolati tutti diversi e abilmente ricamati dalle mani dei rappresentanti del gentil sesso, giovani e anziane. Solo per sé e comunque come segno della propria identità preziosamente nascosta e segreta. Il bianco e l’azzurro degli edifici che si ammirano lungo il litorale sono i colori che la wilaya (il Comune) di Algeri ha indicato come obbligatori per le case ristrutturate. Quei due colori si stagliano verso il cielo e con esso talora si confondono, oltrepassando e quasi perforando anche le poche rade nubi.
Come ce le descriveva già Leone l’Africano, le mura della città sono “bellissime e fortissime… e sono in lei nelle case e ordinate piazze in ciascuna delle quali è la sua arte separata”. La città, le cui origini risalgono al III sec. d.C. circa, è divisa in due parti: la città bianca dei francesi e la Casbah, il nucleo più antico. La città francese, più bassa e vicina al porto, offre al visitatore la vista di cariatidi che sorreggono i balconi, stucchi dai motivi geometrici o floreali a decoro di porte e finestre, ringhiere lavorate e portoni imponenti. La zona antica ha, invece, un’architettura più lineare, con balconi sorretti da travi oblique e antiche porte di ferro e legno. Ai piedi della Casbah si ammira la moschea di Jamaa el Jedid. Dell’antica Icosium fenicio-romana non resta nulla. Ma la Casbah incontra l’Italia…
Casbah e architetti italiani
All’epoca non ho avuto il tempo di addentrarmi nel cuore antico della capitale algerina, ne ho visto solo molte foto, sia sui libri patinati e costosi sfogliati in un negozietto all’aeroporto di Algeri e nella libreria del viaggiatore di un vicolo romano sia su fascinose pubblicazioni in bianco e nero ben distese sugli scaffali di un’altra libreria del quartiere milanese di Porta Ticinese. E poi le ricerche mi hanno portato fino a Pietro Laureano, docente di storia della città e del territorio al Politecnico di Bari, che ad Algeri ha vissuto e insegnato per otto anni. Un brillante italiano a coordinare il progetto di recupero della Casbah finanziato dall’Unesco, lo stesso architetto che ha restaurato con successo i sassi di Matera. Il gruppo di Laureano si concentrerà sulla Casbah ma anche sulla Medina e l’antica Algeri, ossia su quella parte della città costruita su un pendio come un triangolo. L’iniziativa si contraddistingue per una particolarità: gli italiani dovranno imparare le tecniche usate per la costruzione della Casbah e nuovi operatori saranno formati sul campo. Il tutto si basa sulla concezione di un passato che ha molto da insegnare ad un architetto moderno. Il cuore dell’antica Algeri, ad esempio, è una struttura antisismica, ottenuta attraverso espedienti architettonici da trasmettere anche ai contemporanei. A imparare dal passato saranno, allora, sia architetti algerini che italiani. Fra questi anche Daniela de Michele.
Notre Dame d’Afrique
Dal quartiere tumultuoso e popolare di Bab el Oued di Algeri si sale sempre più in alto ove qualcosa di incredibile svetta da uno sperone roccioso scagliato verso il mare luccicante. Ci arrivo dopo una miriade di curve che ha messo a dura prova il mio stomaco. Ma se è vero che non si ha mai nulla per nulla, posso dire che ne valeva veramente la pena. Qui sorge la basilica cristiana di Notre Dame d’Afrique (1858-1872), uno spazio di riflessione di una Chiesa senza fedeli, la Chiesa di un popolo musulmano perché in mezzo ad esso. La maestosità dell’esterno contrasta con l’umiltà dell’interno. Sull’altare svetta una scritta, non ricordo se affresco o mosaico, con “Maria proteggi noi e i musulmani”. Incredibilmente bello. La vista è mozzafiato. Si vede tutta la baia di Algeri con le sue luci, si sentono le cantilene dei muezzin, talora scoordinate ma quante note nell’aria umida…Ci si sente avvolti dalla propria identità dominando quella vista. In basso si intravvedono il cimitero francese accanto al musulmano; più in alto la sede del Nunzio Apostolico sembra voler umilmente dire che ci siamo anche qui, arrivati dalla lontana Roma, che la presenza, in questo luogo dimenticato, della Chiesa trova la sua ragion d’essere unicamente nel condividere la vita e nel collaborare con una popolazione interamente musulmana, nell’essere uomini e donne di solidarietà. Le scritte sulle pareti della Basilica narrano di storie di missionari, vescovi e umili preti, che prima di raggiungere la loro missione fanno tappa ad Algeri, venendo in pellegrinaggio a Notre Dame per pensare a sé stessi come portatori di un messaggio di fede e speranza nella difficile età coloniale. E in questa Basilica non aleggia l’ideologia di una Chiesa trionfante ma l’inizio del cammino di una missione decolonizzata e decolonizzatrice. Nella Basilica ho visto tanta gente e certamente molti di loro erano locali e di altra religione. Mi ha profondamento commosso quel raccoglimento senza religione, senza tempo e senza barriere. Con la stessa compassione per il mondo. E’ un luogo mistico, misterioso e toccante. Pare di toccare il mistero dell’esistenza e della speranza oltre alla bellezza dell’essere umano, in mezzo a tanto orrore, all’orrore quotidiano di giornali e teleschermi. Quello che oggi tanto ci vorrebbe. La vita dovrebbe a chiunque un passaggio anche fugace per Notre Dame.
Vestigia romane
I romani sapevano distinguere i posti migliori ove erigere le loro città… Bellissima è Tipaza, colonia fenicia passata in seguito ai romani, a 70 km a ovest di Algeri: si ammirano archi, colonne e capitelli che si mescolano ai pini marittimi e al blu del Mediterraneo. L’antica Thamugadi, oggi Timgad, ai piedi del monte Aures fu fondata dall’imperatore romano Traiano I nel I sec. d.C. Qui sono conservati statue e mosaici originali, reperti di grande valore storico e culturale, patrimonio comune.
CINEMA E OPERA AD ALGERI – Da vedere
La battaglia di Algeri (1965), di Gillo Pontecorvo
Il film, girato secondo uno stile documentaristico, racconta della “guerra” scoppiata ad Algeri fra l’OLN e la polizia francese, durante il protettorato francese, avvenuta il 10 giugno 1956. Leone d’Oro al Festival di Venezia del 1966.
L’Italiana in Algeri (1813), G.Rossini, Dramma giocoso in 2 atti
Il dramma racconta di un intreccio di storie d’amore che vedono coinvolti il bei Mustafà e la moglie Elvira, il giovane italiano Lindoro (che si trova alla corte del bei e al quale Mustafà vorrebbe dare in sposa la moglie Elvira che non ama più) e la bella italiana Isabella, fatta prigioniera dai turchi ed innamorata corrisposta da Lindoro, che rivedrà per caso dopo incredibili peripezie. Tutto bene quel che finisce bene con le coppie si riuniscono: Mustafà con Elvira e Lindoro con Isabella. Con canti finali in omaggio dell’italiana Isabella piena di risorse.
Fotografia in evidenza e di Tipaza, Simonetta Sandri
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Simonetta Sandri
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