Istruzioni per l’uso del nuovo sistema elettorale (con traduzione in italiano)
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È stato chiamato Italicum e poi ci ha pensato Giovanni Sartori a battezzarlo Bastardellum, dopo che egli stesso etichettò il Mattarellum e, in seguito, il Porcellum.
Se non si fosse capito si parla di legge elettorale. È la quadra che Matteo Renzi ha distillato dopo l’incontro con Silvio Berlusconi. Un quarto modello rispetto agli iniziali tre che il segretario nazionale Pd ha lanciato, nel tentativo di sbloccare un estenuante stallo politico, nonostante i ripetuti appelli del Capo dello stato e, soprattutto, dopo che la Corte costituzionale ha gambizzato la Porcata di Calderoli.
È facile immaginare che da fuori qualcuno spalanchi gli occhi a sentire tale lessico, ma questa è la politica italiana.
L’estensore della proposta renziana è Roberto D’Alimonte, che preferisce chiamarla Italicum e confessa sul Sole 24 Ore (31 gennaio) che, sì, avrebbe preferito un modello alla francese. Un conto però sono i desideri e altra cosa la realtà. Lo scrive chiaro e tondo sullo stesso quotidiano in un botta e risposta con Sartori, in cui i due si danno, senza esclusione di colpi, dell’idealista e del realista.
Da una parte D’Alimonte avrebbe al fine scelto di fare il “consigliere del Principe”, mentre quest’ultimo si difende dicendo che nell’impossibilità di perseguire le “soluzioni esatte” occorre mettersi sulla strada del possibile.
Intanto, un’altra questione che ha sollevato polvere e scintille è l’accordo cercato con il Cavaliere.
Da una parte, chi rileva l’errore commesso da Renzi di avere rimesso in gioco, addirittura come padre costituente in petcore, il leader di Forza Italia, nel frattempo messo game over da una sentenza definitiva della magistratura. Dall’altra, chi ribatte che se da quella parte tutti riconoscono Berlusconi come leader indiscusso, è inutile parlare con dei portatori d’acqua quando chi decide è il capo della cisterna.
Ma vediamo come il nuovo sistema di voto, salvo ulteriori modifiche, dovrebbe funzionare.
L’idea è un sistema proporzionale con collegi piccoli, dovrebbero essere in tutto 148, e un numero di candidati dai tre ai sei in ognuno. Le liste per collegio sono bloccate, cioè non è possibile esprimere preferenze sulla scheda elettorale. C’è poi una soglia di sbarramento per accedere alla Camera (a seguito infatti della riforma costituzionale, data per prossima, il Senato non sarà più elettivo), che in un primo tempo era del 5 per cento, poi ridotta al 4,5, per i partiti che si presentano in coalizione, mentre sale all’8 se corrono da soli. Chi raggiunge il 37 per cento dei voti (in origine il 35) si aggiudica un premio del 15 per cento, raggiungendo la maggioranza assoluta.
Se nessuno ce la fa, i due più votati – partiti o coalizioni – ricorrono ad un secondo turno (ballottaggio) e chi vince governa.
Prima ancora di giudicare se sia cosa buona e giusta, forse non sarebbe male tentare di comprendere meglio la questione con la chiave di lettura del classico “a chi giova”, visto che pare assodato che le leggi elettorali siano complicate partite a scacchi fra chi si guarda in cagnesco, mentre l’interesse generale è ormai argomento da libri.
Innanzitutto quella soglia di sbarramento, quasi tedesca, eliminerebbe i piccoli, salvo un meccanismo detto “salva Lega”, secondo il quale per chi si presenta in non più di 7 regioni basta raggiungere il 9 per cento dei voti in sole tre circoscrizioni.
Uno a zero per la destra, si direbbe, visto che la Lega è prevedibile che continuerà ad abbaiare, ma poi finirà per tornare alla mangiatoia.
Il secondo turno sembra invece un punto a favore per Renzi strappato al Cavaliere, consapevole che il proprio elettorato va convinto, si dice, a recarsi a votare anche al primo.
Le liste bloccate, tutto sommato, potrebbero fare comodo ad entrambi, visto che un Parlamento di nominati significa, tendenzialmente, gruppi parlamentari più docili.
Più intricato il trittico soglia di sbarramento, candidature in più collegi, ipotesi scartata in un primo tempo e poi ammessa con un tetto di 3-4 collegi, e le recenti aperture di Berlusconi sulle preferenze.
Qui è curioso che dopo i referendum di Segni nei primi anni ’90 per eliminarle, perché piaga endemica di mercato elettorale e mafie, si ritorni a gridare per reintrodurle in nome della trasparenza.
Da allora corruzione e criminalità organizzata in Italia non risulta siano state debellate.
Comunque sia, parrebbe di capire che le preferenze, pensando alla composita coalizione di destra e con il recente ritorno del figliol prodigo Casini, autentico flaneur della politica italica, possano fare buon gioco da quella parte (specie se qualcuno arrivasse a fatica al 4,5), per quanto non è esclusa una partita aperta pure in casa Pd sui nomi.
Se uno come Cuperlo le vuole, un motivo ci sarà.
Mentre sulle pluricandidature, anche se non illimitate, il nome Silvio continua a fare la differenza soprattutto a destra, come insegnano le elezioni del febbraio 2013.
In conclusione, se si vuol dare senso alle parole che girano, si potrebbe dire che Berlusconi ha tutto l’interesse a mettere insieme da quella parte capre e cavoli, diavoli e acque sante, pur di arrivare al fatidico 37 per cento al primo round e beccarsi il premio che lo porterebbe al 52.
Poi governare con gente che continua a mandarsi a quel paese è tutto da vedere, ma intanto quel che conta è vincere.
Per Renzi, invece, a sinistra del Pd è rimasto poco più che il deserto e, magari pensa di giocarsela al doppio turno, specie con le truppe grilline rimaste fuori partita e orfane delle loro stelle. Lo stesso ritocco dal 35 al 37 come soglia del premio al primo turno, secondo questa ipotesi potrebbe complicare le cose proprio in casa Arcore.
Sempre che la Corte costituzionale non riaccenda il semaforo rosso, perché liste bloccate e premio di maggioranza sono, sì, meno ingombranti, ma ci sono ancora.
In ogni caso, molto potranno dire le prossime elezioni europee di maggio, ancora una volta un test importante per scrutare più il cortile di casa piuttosto che rafforzare il sogno di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.

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Francesco Lavezzi
Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani