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Inaam e Hassan non vivono più in Iraq. Ahmed viene da una Baghdad surreale, quando si parla del suo lavoro si parla di fantascienza araba: lui, scrittore iracheno contemporaneo, che ha vinto il più importante premio internazionale per la letteratura araba di fiction con il suo incredibile “Frankenstein a Baghdad”. Il titolo richiama scene di vita nelle quali spari, autobombe, cadaveri e odore di polvere da sparo e morte fanno parte di un’esperienza quotidiana con cui si confronta ogni cittadino della capitale irachena, un tempo vanto di fasti passati. Se non siete superstiziosi, dice il moderatore Gad Lerner, eccoci qui a parlare della morte e del rapporto con la morte, che sembra così diverso nell’esperienza e nelle culture occidentali e medio-orientali. C’è empatia in sala. Si alternano momenti di stupore e riflessioni ad altri di sottile ironia. Anche nei racconti di Hassan Blasim si parla di morte, che va avanti da oltre dieci anni in Iraq ed è diventata il racconto della migrazione. E nel lavoro di Inaam Kachachi vi è una diaspora (“i cuori sono uccelli che scorrono”) che però si conclude con corpi da tagliare a pezzi per essere riportati nel luogo natale che è l’Iraq.
Questo rapporto con la forte probabilità quotidiana di incontrare la morte è un’importante differenza culturale che oggi viviamo. In un posto come l’Iraq sconvolto dalla guerra, la morte va sfidata, da noi è ancora un tabù. La familiarità con la morte è qualcosa che gli iracheni vivono da tanto. Questo è il vero dramma.
Quando Lerner chiede ad Ahmed Saadawi se occidentali e iracheni hanno un rapporto diverso con la morte, l’autore risponde che non dovrebbe essere diverso ma uguale per tutti: si entra e si esce dalla vita tutti allo stesso modo, lasciando questa terra. “Ciò che è veramente diverso per le varie culture, è quello che succede dopo. In Iraq, dalla metà degli anni Sessanta, l’incontro con la morte è regolare”, dice l’autore. E aggiunge: “abbiamo avuto golpe e lotte politiche, giungendo fino a un abbraccio con la morte durante la guerra Iran-Iraq negli anni Ottanta. Era normale allora vedere alla televisione immagini che inneggiavano anche alla morte. Terminata quella guerra, pensavamo fosse finita, invece è arrivata l’invasione del Kuwait e poi le guerre cominciate nel 2003 con l’invasione dell’Iraq. Si pensava che, caduto Saddam, ci sarebbero state pace e ricostruzione, invece ci siamo trovati in una guerra civile e da due anni conviviamo con l’Isis. Ho scritto una volta che la morte è diventata di routine. E’ vero, purtroppo. Per esempio passi in una strada e vedi feriti, ma tiri avanti, vai dritto, ormai queste scene fanno parte del quotidiano. Questo non è normale, la morte dovrebbe destare paura e terrore”.
Anche Inaam Kachachi parla della morte, ricordando come gli iracheni provengano dalla Mesopotamia, la terra di Gilgamesh l’eroe che cercava l’immortalità, come siano eredi di Shahrazād, che con i suoi racconti ha ingannato la morte. Racconta anche che all’iracheno che vive all’estero non fa paura sapere se e quando morirà, quanto ignorare dove verrà sepolto. Per questo, nel suo racconto ha pensato a un cimitero elettronico dove tutti possono trovarsi, in un mondo fatto di diaspore.
Hassan Blasim ha fatto accendere le luci del teatro perché non gli piaceva l’idea di parlare di morte con un pubblico che ascoltava ma che lui non vedeva e poi ha esordito dicendo che lo humor nero fa parte dell’Iraq di oggi, fa parte del quotidiano, della vita stessa: “Qui ci si è abituati a convivere con la morte e forse per questo ne abbiamo meno paura di voi”. Il suo Frankenstein è una vera ricerca antropologica. Mentre gira per la città per trovare chi ha ucciso le persone di cui è fatto il suo corpo, si definisce come il cittadino iracheno primigenio: fatto di parti di corpi di molti popoli, provenienti da tanti e diversi villaggi, da tante religioni, da varie etnie di persone morte in attentati. Questo strano personaggio vuole vendicare ogni brandello del suo corpo. Il paradosso sta nella domanda e nella sua risposta: chi ha ucciso questi vari brandelli? La risposta è: siamo stati noi. Il corpo di Frankenstein è allo stesso tempo vittima e carnefice che fa partire una vendetta priva di ogni dimensione etica. Questo uomo è un mosaico di tutte le componenti della società irachena, quindi è il prototipo del cittadino iracheno. C’è chi si uccide per lui, per potergli dare i pezzi di ricambio di cui ha bisogno. Lui è il numero uno e i suoi seguaci saranno il due, il tre, il quattro… Sembra il salvatore, ma la storia insegna che chi si presenta come tale finisce per diventare un dittatore. Solo la concordia e l’intesa salveranno questa umanità in declino, non un cavaliere bianco. Questo Frankenstein è davvero strano, ma fa venire una gran voglia di riflettere.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.


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