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Piedi che compongono passi e si muovono frenetici sul pavimento lucido e asettico,
mani che impugnano maniglie di trolley ripieni trascinati contro la loro volontà.
Facce stanche e sparuti sguardi.
Siamo in una stazione, uno dei posti che Marc Augé definiva non-luoghi.
Dove i viaggiatori sono solitamente persone accomunate da lavoro o svago.
Qui i viaggiatori sono Olga, Andrea, Jacopo, Carmelo.
E apparentemente non hanno niente in comune, se non il fatto di essere matti.

“Quel treno speciale per Pechino”, questo il titolo del film presentato da Giovanni Piperno
venerdì 2 ottobre in occasione del Festival di Giornalismo Internazionale, documenta il viaggio
che lui, insieme ad altre settantasei persone con problemi psichiatrici
accompagnati da 130 familiari e operatori,
intraprende nell’agosto 2007 partendo da Venezia in direzione Pechino.
“Questo viaggio è stato organizzato, anche grazie all’apporto del Ministero della Sanità,
dall’associazione Le parole ritrovate (leparoleritrovate.org), nato nel 2000,
che coinvolge familiari, operatori e semplici cittadini nell’ordine di idee di raccontare storie di tutti i giorni relativamente alla sanità mentale, con l’intento di scambiarsi esperienze di vita nell’ottica del fareassieme – racconta il regista al termine della proiezione.

Ho fatto un regolare casting per scegliere gli attori di questo film – continua – mi appuntavo durante le chiacchierate gli aspetti caratteriali che mi colpivano di ognuno di loro.
Nel corso della narrazione e del viaggio, si sono andati poi delineando
naturalmente quelli che sarebbero stati i protagonisti. Di notte insieme al fotografo e aiuto regista guardavamo il girato della giornata.
Con alcuni di loro sono ancora in contatto: Jacopo ora sta meglio; Olga può vivere nella casa che
era di sua madre, intervallando la sua permamenza nella casa famiglia; Andrea deve prendere medicine pesanti per stare bene, e questo non è un bene”.

Lo sferragliare del treno diventa termometro degli animi, custode obbligato dei passaggi tra sonno e veglia, tra fermate in stazione e discussioni a mezza voce o ad alta voce.
Si attraversa pigramente Budapest, Mosca, il lago Bajkal, Ulan Bator, la Mongolia con le sue steppe sconfinate, fino a entrare trionfalmente nella stazione della capitale cinese.
Alle chiacchiere con gli ospiti si aggiungono quelle con i loro familiari, con gli pshichiatri, con gli operatori. Chi racconta come è comparso il disagio, chi racconta come e perché ha cominciato a fumare, chi vorrebbe allontanarsi dal resto del gruppo e simi lamenta che “se l’avesse saputo non sarebbe mai partito”.
Lentamente, a tratti con fatica intervallata da momenti di tenerezza e di divertimento, tra un corso di yoga e una lezione di astrologia, si compatta un gruppo di persone inizialmente frastagliato,
con qualche falla a dover essere tappata, con qualche piccola ferita che forse può esser medicata da quello strano viaggio su carrozze e rotaie, mescolati ad altri passeggeri.

C’è il monolitico Andrea, serio e visceralmente schietto, corrispondente speciale di una emittente radiofonica a cui racconta passo passo il viaggio – con occhio del tutto personale.
C’è Olga, amante dei gioielli con i turchesi, che soffre di una patologia che le fa sentire le voci e si chiede se tutti quegli elettroshock che le hanno fatto siano serviti a qualcosa.
C’è Carmelo, che soffre di un disturbo bipolare e passa da stati di gioia
immensa a momenti di depressione totale.
C’è Jacopo, ragazzino autistico, accompagnato dai suoi genitori
che non lo perdono di vista – e di cuore – neppure per un attimo.
C’è Vincenzo, per tutti solo Enzo, napoletano polemico
e dalle simpatie anarchiche che odia dover stare in un gruppo,
detesta chi comanda e considera questo viaggio “una pura follia”
– in fondo, come dargli torto?

La Grande Muraglia della finalmente ritrovata Pechino
diviene ultimo baluardo per questo strano gruppo, che immortala
la propria impresa con una foto ai piedi del’immensa costruzione.
Sorrisi, pose, maglietta bianca che porta impressa una lettera nera,
ognuno collegato all’altro per comporre una unica frase.
E allora è questa la normalità? mi chiedo quando il film termina.
Andrea e Olga passeggiano di sera lungo una strada affollata, mano nella mano.
Siedono al tavolino di un locale, finiscono a rimembrare vecchi tempi (“Bei tempi”) come una coppia che sta insieme da una vita.
Jacopo sfreccia tranquillo nella corsia centrale di un centro commerciale con i roller blade che gli hanno regalato i genitori.
Enzo cede alla chitarra che il regista gli chiese di portare al principio del viaggio. Non la suona da quindici anni ma nessuno lo nota, intona una canzone melodica mentre sullo sfondo scorrono le immagini di un reality show cinese. L’audio è muto.
Qui nessuno sembra davvero Lost in translation.

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Giorgia Pizzirani



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