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Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e persino le Nazioni Unite, in nome della realpolitik hanno scelto di sacrificare Srebrenica pur di raggiungere un accordo con i serbi, puntualmente stipulato dopo il massacro di luglio: a novembre del 1995 a Dayton in Ohio e poi inl dicembre a Parigi con i trattati che hanno posto fine a tre anni e mezzo di guerra in Bosnia. Le vite dei profughi bosniaci rifugiatisi nella ‘zona protetta’ dell’Onu sono state considerate “vite disponibili”, è stato “il fallimento grottesco di quella che si fa chiamare comunità internazionale”: le parole di Ed Vulliamy sferzano il pubblico che ha riempito il teatro comunale Claudio Abbado per “Srebrenica, vent’anni dopo”. Vulliamy scrive per “The Observer” e “The Guardian”, a quel tempo era inviato nei Balcani ed è autore di “The war is dead, long live the war: Bosnia – the reckoning” (Vintage 2013). Lo scorso luglio ha firmato, insieme a Florence Hartmann (autrice di “Il sangue della realpolitik, il caso Srebrenica”), un articolo dal titolo “How Britain and the Us decided to abandon Srebrenica to its fate”: lo studio di alcuni documenti declassificati rivelerebbe che la caduta di Srebrenica era parte di una politica di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e dei vertici Onu per la ricerca di una pace a ogni costo. “Una pace molto complicata e allo stesso tempo semplice: una pace basata su Srebrenica, che ha rappresentato l’inizio della fine della guerra”, afferma Vulliamy.
Ennio Remondino, allora corrispondente della Rai a Sarajevo, rincara la dose: “Per viltà politica si è scelto di far decidere alla guerra la nuova geografia della regione”.
Tra l’11 e il 13 luglio 1995 i serbo-bosniaci di Ratko Mladic, ‘il macellaio di Srebrenica’, dopo averli separati da donne, bambini e anziani, uccidono e gettano in fosse comuni più di ottomila uomini e ragazzi bosniaci musulmani. Pulizia etnica, il più grave crimine commesso in territorio europeo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Remondino racconta che, quando diversi giorni dopo riuscirono a giungere sul posto con una troupe, “non si vedeva nulla tranne la distruzione totale della città: c’era la percezione della morte, si sentiva l’odore della morte, ma non si poteva immaginare l’entità del massacro”.
Chi invece ha vissuto quei giorni terribili dall’interno della città è Christine Schmitz, infermiera di Medici senza frontiere che nel 1995 ha coordinato le attività a Srebrenica della Ong e ha testimoniato nei processi contro Ratko Mladic e Radovan Karadzic, imputati di genocidio al Tribunale dell’Aja per la ex Jugoslavia.
“Fame, violenza, senso di impotenza” sono le parole che ha usato Christine per descrivere la situazione della ‘zona protetta’ prima della conquista da parte dei serbo-bosniaci: “Vigeva la legge del più forte” e “la popolazione dipendeva dagli aiuti umanitari, che a volte non arrivavano per diversi mesi”. Poi la capitolazione: “il bombardamento è iniziato il 6 luglio, la mattina presto, ed è finito solo l’11, abbiamo tentato di incrementare i contatti con la nostra squadra di Belgrado per continuare a far uscire informazioni”. Infine le parole più terribili, quelle che il mondo non avrebbe più dovuto udire: “selezione” e “deportazione”. Anziani, donne, bambini selezionati e deportati su bus, senza sapere dove fossero diretti e senza sapere quale sarebbe stato il destino dei mariti, fratelli, figli, padri. Per Christine Srebrenica è “un giovane padre musulmano che mi viene incontro con in braccio il suo bambino di un anno, seguito da un soldato con un pastore tedesco. Mi ha dato suo figlio e non ho più saputo nulla di lui. Lo hanno ritrovato in una fossa comune”.
Gli organismi internazionali, le possibilità e i limiti dei loro interventi, la politica estera europea, la realpolitik delle potenze mondiali e la tragedia delle popolazioni civili travolte dai conflitti: questioni aperte allora come ora. Vent’anni fa con la guerra nei Balcani, oggi con la Siria.

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Federica Pezzoli



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