Inflazione senza Scala mobile:
quando i lavoratori hanno perso la grande battaglia.
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Non possiamo dirci usciti – ammesso che ne usciremo mai – da una strana distopia mondiale a base virale, che già si ricomincia a parlare di rischio inflazione. Per almeno trent’anni, in Italia (e in parte dell’Europa) l’inflazione ha strettamente intrecciato le sue vicende con quelle di uno strumento nato come sua terapia sintomatica. La vicenda della scala mobile (nascita, evoluzione e morte) è uno straordinario e drammatico archetipo della storia dei rapporti industriali in Italia: rapporti di forza, di potere. Rapporti di classe.
Credo che spiegare questo meccanismo come fanno gli ‘addetti ai lavori’ rischia, in questo caso, di rendere oscuro ciò che deve essere chiaro; di intorbidare acque che devono rimanere limpide, nella loro feroce evidenza. La storia dell’istituto raccontata da politici, giornalisti di parte (non è un’offesa), ed economisti la puoi leggere in moltissime ricostruzioni, diverse tra loro a seconda dell’orientamento politico, economico, o più banalmente del tasso di conformismo dell’autore.
Personalmente mi interessa parlarti come se tu fossi un bambino di sei anni.
Anzi, ti mostro cosa sei.
Sei (ad esempio) un medio borghese, sui quarant’anni, cinico, fortunato ed individualista. Infatti vivi da solo nella casa che ti hanno lasciato i tuoi genitori. Prendi uno stipendio fisso, non disprezzabile per un single. Duemila euro al mese. Forse diventeranno duemila e cento tra cinque anni, quando un rinnovo contrattuale aggiornerà la tua paga base.
Per intanto, i duemila euro rimangono fissi. Con quei soldi, questo mese paghi le bollette. Trecento euro di luce, trecento di gas, duecento di acqua. Poi fai la spesa del mese: duecento euro. Ti restano mille euro. Un cinema, uno spettacolo a teatro, quattro pizze, una trattoria, un libro, un concerto, la benzina per la macchina, le sigarette, quattro biglietti del treno.
Alla fine del mese, riesci persino a farti avanzare duecento euro. Se le tue abitudini non cambiano, se riesci a non mangiare troppo, a non esagerare con la cultura e col fumo, se tutte le variabili di questo andazzo rimangono fisse, in un anno riuscirai a mettere da parte duemilaquattrocento euro, e non stai calcolando la tredicesima, che sono quasi due stipendi in uno. Ci scappa anche una bella vacanza di una settimana. Sei un signore.
Due mesi dopo, prendi sempre duemila euro. Facciamo finta, per semplicità, che i tuoi consumi non aumentino, né diminuiscano. Consumi la stessa quantità di luce, di gas, di acqua, di spesa, di benzina, di cultura e di sigarette. Una sorta di Asperger del consumo (lo so, Franco Modigliani considererebbe tutto ciò astratto, ma invece non vi è nulla di più astratto della macroeconomia).
Però spendi trecentodieci euro di luce, trecentodieci di gas, duecentodieci di acqua, duecentoventi euro di spesa. Fai la stessa strada di sempre, eppure ti vanno via in carburante venti euro in più di due mesi fa. Alla fine del mese in tasca ti restano centotrenta euro. Cominci a riconsiderare la meta della vacanza: poco male.
Passa un altro bimestre, e rispetto al bimestre precedente le bollette aumentano di altri dieci euro, idem la benzina, idem la spesa. Hanno ritoccato anche il prezzo delle sigarette: che sia un messaggio per la tua salute? Che strano: hai sempre le medesime abitudini di consumo, e in tasca ti restano sempre meno soldi.
Alla fine dell’anno non ti resta più niente in tasca, dei tuoi duemila euro mensili. Anzi: vai a debito di cinquanta euro, e per fortuna che avevi messo da parte qualcosa prima. La vacanza l’hai fatta, ma avanti di questo passo una settimana sarà troppo costosa, e passerai ai week end mordi e fuggi.
In dodici mesi, i prezzi medi delle cose che acquisti o delle materie prime che consumi sono aumentati del venti per cento. Il tuo stipendio invece è rimasto uguale, e rimarrà invariato fino a quando un rinnovo contrattuale lo alzerà. Tra alcuni anni, e sicuramente non in maniera tale da compensare l’aumento dei prezzi. Quindi: in ritardo, e non abbastanza.
L’aumento dei prezzi è noto come inflazione.
Adesso sembra assurdo fare un esempio di inflazione al 20% annuo, ma quarant’anni fa non era così. Ci sono stati anni in cui l’aumento dei prezzi si avvicinava proprio a questa percentuale. Quando questo fenomeno ha cominciato a mordere le caviglie degli italiani, gli italiani stessi erano molto più poveri di adesso e la cosiddetta scala mobile non esisteva.
Non credo che la Confindustria nel 1945 abbia firmato con la CGIL un accordo che prevedeva l’indicizzazione dei salari all’inflazione (allora con un meccanismo differenziato per età e genere) per far guadagnare di più i salariati. Lo ha fatto per tenere a livelli accettabili i consumi, per non impoverire le persone al punto che non riuscissero più ad acquistare i prodotti delle sue industrie.
Comunque la si pensi, è quindi impossibile invertire causa ed effetto: la scala mobile nasce come meccanismo di adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi. Quindi la scala mobile è un effetto, o un rimedio, non la causa dell’aumento dei prezzi.
Ma l’illustre economista Franco Modigliani, a metà degli anni 70, comincia ad affermare che un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’incremento dei prezzi contribuisce esso stesso ad aumentarli. Il motivo sarebbe il seguente: se aumenta il denaro a disposizione dei consumatori ma non aumenta l’offerta di beni – in termini economici, cioè, non aumenta la produttività – la domanda di acquisto di beni (incentivata dall’aumento dei salari) supera l’offerta, e questo fa aumentare i prezzi.
Modigliani tuttavia non era un reazionario. Sosteneva che non solo i salari, ma anche le tariffe dovessero essere calmierate, altrimenti il costo del calmiere per evitare l’inflazione sarebbe ricaduto tutto sulle spalle dei lavoratori. Inoltre sosteneva che doveva aumentare la produttività del lavoro. Perché non c’è solo un modo per tenere sotto controllo l’aumento dei prezzi (cioè bloccare i salari): ci sono l’ aumento delle dimensioni delle imprese, gli investimenti sulla tecnologia, la ricerca sull’organizzazione del lavoro e sui prodotti.
L’industria italiana si è mossa su questi tre versanti? No, o comunque lo ha fatto in maniera insufficiente.
Il risultato è che la battaglia persa sulla scala mobile (simboleggiata dalla sconfitta nel referendum del 1985) non è stata una sconfitta parziale, ma ha segnato la sconfitta nella complessiva guerra di classe, ovvero quella sulla distribuzione dei ricavi tra profitti e salari.
Se l‘inflazione sale, seppure non ai livelli del passato, ma i salari restano fermi e la produttività pure, il divario tra chi incassa reddito da capitale e chi incassa reddito da lavoro aumenta.
Così è stato. L’Italia è, tra i Paesi dell’area Euro, quello in cui, negli ultimi trent’anni, i salari reali hanno perso maggiormente potere d’acquisto.
Come si fa a non legare questa dinamica all’inizio della cosiddetta ‘politica dei redditi’, della concertazione e della moderazione salariale, incarnata dall’accordo governo-sindacati del 1992?
Come si fa a non capire, almeno adesso, quello che Bruno Trentin capì allora, quando firmò l’accordo sotto il ricatto delle dimissioni del Governo (che avrebbe addossato la responsabilità della crisi istituzionale tutta sulla CGIL) e subito dopo si dimise da Segretario Generale, sapendo di non avere rispettato il mandato affidatogli?
Il tormento di un intellettuale come Trentin – un uomo della trattativa, il contrario del massimalista stile “tanto peggio tanto meglio” – rimane nella drammatica testimonianza umana lasciata nei suoi Diari: “Mi sono trovato assediato: al di là delle intenzioni e del peso effettivo della minaccia di crisi di governo che Amato ha evocato, era certo che un fallimento del suo tentativo avrebbe avuto, a quel punto, degli effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese e sul piano internazionale. La divisione fra i sindacati e nella Cgil avrebbe dato un colpo finale al potere contrattuale del sindacato come soggetto politico. Salvare la Cgil e le possibilità future di una iniziativa unitaria del sindacato; impedire che fosse imputata ad una parte della Cgil la responsabilità di un ulteriore aggravamento della crisi economica, per emarginarla sul piano politico mi imponevano di firmare l’accordo e di lasciare quindi libera la Cgil e i suoi organismi dirigenti di convalidare o meno quella decisione. … Dall’altra parte, ero ben cosciente che, ciò facendo, disattendevo il mandato ricevuto dalla Direzione della Cgil, quel mandato che avevo sollecitato con tanta insistenza, contrapponendomi alla tesi dei soliti rentiers della politica del sempre peggio, che invocava l’abbandono del negoziato. Non potevo annunciare alla Segreteria della Cgil la mia intenzione di firmare, senza preannunciare le mie dimissioni. Ciò che ho fatto.”
Quel momento è stato per l’Italia uno snodo decisivo. Un evento, nel senso più proprio del termine, in quanto ha condizionato i successivi trent’anni di rapporti industriali.
Ha spalancato la strada ad un liberismo economico privo di progettualità, basato esclusivamente sulla moderazione salariale. Tanto più paradossale se inserita dentro un modello di società che identificava il consumo come unico indice di emancipazione, anzi di identità sociale, con le tragiche conseguenze antropologiche di cui Pasolini parlava già vent’anni prima. Una Estensione del dominio della lotta, per citare letteralmente il titolo del primo romanzo di Michel Houellebecq, uscito non a caso nel 1994. Un libro sull’assenza di uno scopo per cui lottare.
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Nicola Cavallini
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