L’indifferenza è diventata uno dei volti umani più diffusi, una brutta maschera imperturbabile, fredda, distaccata, indecifrabile, indossata ormai con naturalezza e a volte inconsapevolezza, a smentire tutto ciò che servirebbe a creare relazioni umane sostenibili, giuste e costruttive. E’ uno stato che annulla, azzera, elimina, nasconde profondamente emozioni, sentimenti, neutralizzando e paralizzando le risorse valoriali che abbiamo in noi, ferendo ed emarginando chi ci sta davanti, creando più sofferenza di quanta ne possa talvolta provocare qualsiasi altra reazione attiva. L’indifferenza ha in sè un carico di aggressività che sa dove colpire e mira all’annientamento dell’altro, negandogli l’esistenza e il valore umano.
E’ difficile credere nell’atteggiamento di totale indifferenza di un essere umano che respinge e tacita qualsiasi propensione emotiva nei confronti di un altro, eppure fatti e avvenimenti che ci giungono quotidianamente ci riportano e ci forniscono triste conferma del livello di insensibilità, noncuranza e distanza tra appartenenti al genere umano, per quanto diversi nelle loro peculiarità. A volte scatta un primitivo meccanismo di autodifesa al quale ci si aggrappa per allontanare ‘l’altro’, vissuto come ‘pericoloso estraneo’, svilendo intelligenza e anni di evoluzione; in altre circostanze l’indifferenza diventa la risposta all’esasperazione e prende il posto di qualsiasi altra reazione che esaurirebbe ogni nostra energia. Resta il fatto, sempre e comunque, che l’indifferenza costituisce una delle peggiori facce di un’umanità in difficoltà, disorientata davanti a cambiamenti epocali, piegata da eventi che spesso sfuggono a comprensione e controllo, diffidente, incattivita, impoverita e depauperata del patrimonio di valori e sentimenti che l’hanno sorretta in epoche passate e che ora sembrano in zona d’ombra.
L’indifferenza è l’ottavo vizio capitale che affossa ogni speranza e aggredisce ogni aspetto pubblico e privato delle nostre esistenze, da qualsiasi angolazione la si consideri, impedendoci di essere semplicemente umani. Antonio Gramsci sosteneva: “L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Vivo, sono partigiano!” Liliana Sagre, senatrice a vita, sopravvissuta ad Auschwitz, in una dichiarazione Ansa ha dichiarato: “Il razzismo e l’antisemitismo non sono mai sopiti. Oggi il razzismo è tornato fuori così come l’indifferenza generale, uguale oggi come allora, quando i senza nome eravamo noi ebrei. Oggi percepisco la stessa indifferenza per quelle centinaia di migranti che muoiono nel Mediterraneo”. E Papa Francesco, nell’udienza del 17 ottobre scorso, ha sottolineato: “Per annientare un uomo basta ignorarlo. L’indifferenza uccide. Ogni volta che esprimiamo disinteresse per la vita altrui, ogni volta che non amiamo, in fondo disprezziamo la vita”.
Quando si parla di indifferenza è facile confondere il termine con ‘tolleranza’ e strumentalizzarne il senso per fornire giustificazioni alle implicazioni negative, ignorando volutamente che esiste una netta differenza fra lo svuotamento emotivo indotto dall’indifferenza e l’intenzionalità contenuta nell’atteggiamento tollerante. Un monito comune viene da ciò che Martin Luther King e Albert Einstein sottolineavano. Il primo sosteneva che “la nostra vita comincia a finire il giorno che diventiamo silenziosi sulle cose che contano”; il secondo scrive che “il mondo non è minacciato dalle persone che fanno il male, ma da quelle che lo tollerano”.
Il tema dell’indifferenza viene trattato magistralmente nel romanzo d’esordio di Alberto Moravia ‘Gli indifferenti’ del 1929. Uno spaccato narrativo che si svolge nell’arco di 48 ore e racconta della famiglia Ardengo, composta dalla madre Mariagrazia e dai figli Carla e Michele. Una miriade di altri personaggi che entrano ed escono dalle vicende, rafforzando o svilendo la vita dei personaggi principali, rappresentano con il loro ambiente borghese alla deriva, l’indifferenza come degradazione dell’uomo che, rassegnato e sconfitto, rinuncia a vivere. Inerzia morale, squallidi compromessi, noia che impedisce slanci e stimoli, passività esistenziale, superficialità verso i valori più veri e profondi insiti nell’essere umano, misere bassezze, sono i segnali forti del declino ineluttabile e senza appello. Un film cult degli anni Settanta, ‘I cannibali’ di Liliana Cavani, costituisce una delle icone dell’indifferenza rappresentata sul grande schermo. Liberamente ispirato all’Antigone di Sofocle, è ambientato in un futuro distopico in cui si può riconoscere senza sforzo la nostra epoca. In un regime totalitario, le strade di una grande città sono ricoperte dei cadaveri dei ribelli. La gente passa accanto ai poveri corpi senza degnarli di uno sguardo, transitando frettolosa e assente. Un’indifferenza indotta dal regime che ha posto il veto di rimuovere i dissidenti, a cui la gente si è assuefatta in fretta. Antigone vuole seppellire il fratello, contro il parere della famiglia e, aiutata da un misterioso straniero, nel tentativo di rimuovere il corpo, viene arrestata, torturata e uccisa dalla polizia insieme a chi l’ha affiancata. Diventeranno simbolo per molti giovani che, su loro esempio, recupereranno i cadaveri e li seppelliranno. Siamo in una grande città, ma l’indifferenza è un veleno trasversale che può raggiungere anche le periferie dove, comunque, esiste ancora una sottile rete di rapporti e relazioni ancora (fino quando?) a misura d’uomo, un venirsi incontro nonostante tutto, uno slancio che nel bisogno fa leva su sani sentimenti di reciproco aiuto, sostegno e comprensione.
“La pena che i buoni devono scontare per l’indifferenza alle cose pubbliche è quella di essere governati dai malvagi”, scriveva Socrate, e lo scotto è davvero pesante.
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