Premessa
Lo studio che qui presentiamo non è stato commentato dai grandi quotidiani, nonostante l’usuale deferenza verso l’ autorevole fonte, ed è uscito (forse non a caso) il giorno dopo le dimissioni di Draghi. Evidentemente si ritiene più utile e vantaggioso divulgare altri dati invece che quelli sulla povertà.
La Banca d’Italia ha pubblicato il 22 luglio l’attesa indagine sulle famiglie relativa all’anno 2020 [Vedi qui] (la precedente era del 2016). Si tratta del più importante studio (su un campione di 7mila famiglie) sulle condizioni di reddito e patrimonio, confrontabile con le passate indagini a partire dal 1977.
I redditi medi dei dipendenti presentano un andamento piatto negli ultimi 45 anni, tranne un leggero aumento alla fine degli anni ’80. Il 1989 è l’anno del massimo picco (22.731 euro) rispetto ai 19.438 del 2020. Per gli indipendenti i redditi medi sono molto più variabili: dopo una crescita costante dal 1977 al 1987, subiscono un calo progressivo fino al 1995 per poi ricrescere fino al 2004. Da quel momento calano e recuperano qualcosa solo dal 2012 ad oggi. Sono il 69% in più di quello dei dipendenti nel 2020 ed avevano lo stesso differenziale nel 1977. E’ invece diminuita molto la ricchezza netta mediana delle famiglie: fatto uguale 100 il patrimonio del 2006, lo stesso è sceso a 68 nel 2020, con valori molto diversi tra i poveri (9mila euro per il 30% dei più poveri; 207mila per le classi centrali; 1,6 milioni per il 5% più ricco).
Un tonfo clamoroso dovuto in gran parte alla svalutazione delle case di cui gli italiani sono oggi proprietari nel 77% dei casi (rispetto al 47% del 1977) e che sono entrate nel mirino di grandi società (multinazionali e nazionali) pronte ad acquistarle dalle famiglie che non sono più in grado di reggere l’aumento del mutuo (via inflazione) e la perdita del lavoro (solo a Milano vanno all’asta 304mila immobili).
Lo studio, durato un anno, è stato meglio approfondito nelle estremità del campione (i più poveri e i più ricchi) sui quali è più ostico avere informazioni affidabili (i poveri per stigma, i ricchi per reticenza). Se la ricchezza netta mediana è in fortissimo calo dal 2010, come abbiamo visto (e le previsioni sono di un ulteriore calo per l’altissima inflazione e la probabile stagnazione -se non recessione-), le cose vanno bene per le famiglie ricche.
Il reddito medio scende dell’8% sul 2016, ma se si escludono quelle ricche (circa il 20% che, come vedremo, hanno guadagnato ancora) la perdita delle restanti 80% di famiglie sale al 15%. Cali imponenti certificati ora dalla Banca d’Italia, che sono alla base dell’erosione dei patrimoni e del crollo dei consumi (-20% sul 2006). Non stupisce quindi che Istat abbia visto salire i poveri assoluti da 1,8 milioni del 2005 a 5,7 milioni del 2021, a cui bisogna aggiungere 7 milioni di altri poveri “relativi” (chi guadagna meno di 1.049 euro mensili in una famiglia di 2 persone).
Con l’inflazione che su base annua è già stimata dall’Istat all’11% e che proseguirà nel 2023, l’80% delle famiglie rischia di trovarsi a fine 2023 con un reddito reale inferiore del 20% (a prezzi costanti) rispetto al 2006.
Se poi si considera il coefficiente di Gini (che misura la disuguaglianza: zero se c’è perfetta uguaglianza, 100 se uno solo guadagna tutto) alla luce delle migliorie fatte nel disegno campionario, esso sale dal 33,3% (che si credeva) al 39%. Un dato clamoroso e che ci proietta al primo posto in Europa (media UE 30%, Brasile 57%, Cina 47%, Usa 41%, Russia 40%; i paesi leader Danimarca Giappone e Svezia sono al 24-25%). E’ stato proprio l’approfondimento sulle famiglie ricche e povere (gli estremi) che ha portato alla scoperta che la disuguaglianza è molto più ampia di quanto si credeva. Il 10% delle famiglie più ricche guadagna infatti in media 132mila euro all’anno, mentre il 10% di quelle più povere solo 7.550 euro.
La Banca d’Italia ci consegna un quadro di diffusa povertà della società italiana, molto diverso da quello che ci è stato raccontato (dai media soprattutto) negli ultimi 20 anni che parevano di “magnifiche sorti e progressive” e che sono stati invece di arretramento sociale, se si pensa che metà delle famiglie guadagnano al massimo 25.854 euro l’anno.
Ma non è andata così male per tutti: l’1,2% delle famiglie più ricche hanno, infatti accresciuto il loro reddito medio annuo (322mila euro), il cui valore complessivo è diventato pari a quello del 30% delle famiglie più povere. Metà del reddito percepito in Italia viene spartito così tra il 20,8% delle famiglie più ricche, mentre l’altra metà è distribuito tra il 79,2% delle altre famiglie (classe media, lavoratori e poveri). Dal 2006 ogni anno la “torta” diminuisce, ma la fetta che va a questo 20% più ricco aumenta. Non è quindi strano che nel Paese sia fiorita una critica alle élite, in quanto le condizioni delle restanti famiglie si aggravavano. Una società con tali livelli di disuguaglianza (e che cresce anno dopo anno) è destinata ad implodere e mina in profondità la coesione sociale, oltreché dover spendere sempre più in sussidi per mitigare la protesta degli individui sotto il 50% della mediana del reddito, che sono saliti dall’8% del 1989 al 15,1% del 2020.
Siamo passati dalla società dei 2/3 (che Peter Glotz criticava negli anni ’80 perché lasciava ai margini 1/3 dei poveri), alla società dell’1/5, cioè solo il 20% delle famiglie viene favorito dall’attuale sistema socio-economico e dalla finanza. E’ vero che l’inflazione oggi è dovuta ai prezzi dell’energia, ma è anche vero che essi sono ampliati dalla borsa Ttf di Amsterdam (che consente a centinaia di fondi speculativi di guadagnare), un sistema disegnato dal liberismo.
La povertà ha iniziato a crescere incessantemente dal 1990, proprio da quando è crollata l’URSS; come se il capitalismo occidentale non avesse più avuto la necessità di “farsi bello” agli occhi dei poveri e dei lavoratori per via de “la fine della storia”. Da allora la nostra società è diventata molto più disuguale: oggi “scopriamo” che lo è molto di più di quello che ci è stato raccontato per 30 anni.
Si capisce, pertanto, il motivo per cui “metà delle famiglie ha problemi ad arrivare a fine mese” (dice Bankitalia) e per cui sono crollati i consumi (-20%) sul 2006, dato che per le famiglie ricche si è trasformato invece in maggior risparmio. Nel biennio 2020-21, complice la pandemia, i risparmi degli italiani (famiglie e imprese) sono cresciuti infatti di 130 miliardi e sfiorano i 2mila miliardi (quindi di soldi ce ne sono ancora, anche molti e anche cash, ma molto concentrati), e quindi non stupisce che i risparmi siano cresciuti; ma sono al 90% quelli dei ricchi, se si considera che il patrimonio del 30% delle famiglie più povere è salito dal 2016 al 2020 da 6mila euro a 9mila (soprattutto per il Reddito di Cittadinanza e gli aiuti Covid del 2020), mentre quello del 5% dei più ricchi è salito da 1,2 a 1,57 milioni. Ci vuole poco a capire chi risparmia…
Lo sfacelo sociale è senza precedenti e getta seri dubbi su molte questioni, incluso il modo in cui stare dentro l’Europa. Ovviamente le colpe non sono tutte dell’Europa, ma di chi ha governato e soprattutto di processi mondiali come la globalizzazione e un crescente liberismo a cui ci siamo adeguati, che ha creato vincitori (Cina, paesi asiatici, Germania, Nord ed Est Europa) e vinti (paesi del Sud Europa, africani e altri in giro per il mondo). Un modello che distribuisce i profitti di una crescente privatizzazione dell’economia soprattutto ai ricchi e che ha smesso di arricchire la classe media. Una fascia minoritaria di imprenditori, consulenti, manager, quadri, anche talentuosa e volenterosa, ma a cui è stata ridotta la tassazione (elusione) e consentita una crescente evasione (Ocse stima in 150 miliardi la perdita annua di gettito fiscale negli ultimi 20 anni per via della concorrenza tra Paesi) con il conseguente strisciante smantellamento del welfare (o indebitamento pubblico).
In Italia i danni prodotti dai lockdown antiCovid hanno fatto schizzare il debito pubblico dal 134% del 2019 al 155% (2020). Ora la guerra Russo-Ucraina/Americana, con l’inflazione in crescita, ci prospetta una situazione futura che inizia a presentare sinistre similitudini con quella della Grecia.
Per la borghesia il problema è eliminare il Reddito di Cittadinanza (anziché riformarlo come indica da tempo l’apposita commissione), ma per la ricerca Bankitalia proprio questa misura ha evitato che i poveri assoluti arrivassero alla cifra monstre di 7 milioni. Per i sindacati invece il problema è creare più lavoro, alzare i salari netti, diminuire l’ evasione fiscale e incrementare la giustizia sociale con misure di redistribuzione. I partiti sembrano a corto di ricette.
Nel mondo occidentale i primati dell’economia e della proprietà privata hanno assunto una predominanza totale. Le scelte economiche sono guidate dalla mera logica del profitto e dai fondi finanziari. Dopo anni di narrazioni fuorvianti ora arriva una vera “tempesta”.
Molti cittadini lo sentono, come i vecchi contadini che scrutavano il cielo. Si percepisce che siamo su un “piano inclinato” che per ora ha triplicato i poveri assoluti in 20 anni (da 1,8 a 5,6 milioni), i poveri relativi a 7 milioni, ha portato un quarto dei lavoratori a guadagnare meno di mille euro al mese, con un tasso di occupazione che è lo stesso del 1961. Non parliamo poi di scuola e salute, i cui servizi si degradano ogni anno che passa. Tra qualche anno molti saranno costretti ad acquistare dai privati (Amazon & c.) una sanità scadente di seconda o terza mano (ma rapida e on line: tech verso touch), vista la crescente difficoltà ad accedere ai servizi pubblici. Che questo modello sia difeso da molti (quelli che contano nei vari gangli del paese, media inclusi) non stupisce. Infatti, pur nell’impoverimento generale, prosegue l’arricchimento di questo 20% di cittadini che in Italia comanda, anche nei media. Una finanza senza regole porta a bolle che prima o poi scoppiano e trascinano nella miseria chi lavora nell’economia reale. Sfortunatamente, nessun Governo vuole veramente porre fine all’instabilità dell’attuale sistema finanziario (come ha detto per anni, inascoltato, il segretario della Federal Reserve, Alan Greenspan).
Questa situazione mette ovviamente in pericolo la coesione sociale se, oltre all’impoverimento, si riducono diritti sociali e libertà e si porta la Terra al collasso climatico.
Che fare? Certamente cambiare strada. Forse, almeno nelle società capitaliste avanzate, si dovrà riscoprire quella “decrescita felice” tanto vituperata e irrisa. Se il modello di sviluppo fosse meno improntato al consumismo, la prospettiva potrebbe davvero essere migliore di quella crescita infelice (e per pochi) ora in corso.
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Andrea Gandini
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