Il graffio del pennino sulla pergamena. Il fruscìo del foglio, l’inchiostro, il calamaio: una vita che lascia la sua traccia in una lettera. Una storia personale incisa sulla carta e nella memoria.
Ma cento, mille altre storie riecheggiano in quella voce che racconta, che scrive nell’intimità di una stanza.
Si intitola ‘L’ultimo grido’ la nuova web-serie scritta e diretta dall’autore ferrarese Giuseppe Muroni e prodotta dall’Istituto dell’Enciclopedia Treccani in collaborazione con Controluce Produzione in occasione degli ottanta anni dalle Leggi razziali.
Monica Guerritore, Francesca Inaudi, Francesco Montanari e Stefano Muroni sono gli attori protagonisti dei quattro video – veri e propri piccoli corti – in onda sul canale Treccani Web Tv (www.treccani.it.): un viaggio a tappe nella memoria del nostro Paese, alla ricerca di storie dimenticate o disperse nel contenitore dell’oblio. Quattro letture della durata di cinque minuti per raccontare poeticamente trame di vita di cittadini italiani di religione ebraica rimaste ai margini della Storia.
‘L’ultimo grido’ – una puntata a settimana a partire dalla Giornata della Memoria 2018 – è il secondo capitolo di una trilogia della memoria, e segue ‘Voci di r-Esistenza’, presentata in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione.
“Questa nostra iniziativa indica con chiarezza la decisa apertura nei confronti del mondo digitale che la Treccani ha voluto, con coraggio, percorrere – ha osservato Massimo Bray, direttore dell’Istituto Treccani – Un progetto pensato interamente per la diffusione sul web: questo è un esempio di divulgazione storica interessante, innovativo, fatto con cura, con intelligenza da Giuseppe Muroni”.
Attraverso il ritrovamento e la lettura di quattro lettere, vengono ripercorsi tragici momenti occorsi tra il 1938 e il 1943.
“Nell’Italia delle Leggi razziali compiere gesti eclatanti o urlare non serve più: gli appelli degli ebrei sono inascoltati e stigmatizzati pubblicamente. Prevale l’isolazionismo e la solitudine; quest’ultima è interrotta dalle migliaia di lettere che vengono inviate quasi quotidianamente da una comunità estremamente vivace e attenta a ciò che succede – spiega l’autore – È dalla dimensione privata che bisogna partire per comprendere le vicissitudini degli ebrei italiani durante il regime fascista e non è un caso se la lettera, quindi la capacità di articolare un pensiero personale, intimo, è stata scelta come emblema del viaggio che ci porta a ritroso nel tempo. Nel contrasto tra “spazio privato-libertà” e “spazio pubblico-negazione” si poggiano le fondamenta di una comunità che, come nessun’altra, tentò di non piegarsi alla bieca violenza. Fino a quando le porte di casa rimangono invalicabili viene coltivata una speranza, nutrita dalla fede e dalla cultura; nel momento in cui verrà violata la dimensione privata-familiare, mediante rastrellamenti e deportazioni, inizierà la persecuzione delle vite e il periodo più fosco della storia del Novecento. Le epistole diventano veri e propri luoghi della riflessione, della paranoia, del ripensamento, della scissione, dell’auto-analisi, del malessere, dell’intimità, della resistenza e della libertà”.
La scelta stilistica di Giuseppe Muroni ci affida un’opera garbata, rispettosa, un testo che sa unire rigore scientifico e poesia.
Il titolo è ‘L’ultimo grido’, ma le parole sono sussurrate all’orecchio, soppesate, confidenziali. Sono le lettere scritte nella propria casa, tra gli oggetti che appartengono alla sfera dell’intimità (la tazza nell’abbraccio delle mani, la luce calda dell’abat-jour, i libri) oppure in un campo di internamento, dove la penna offre l’unica via di fuga possibile.
Scrivere diventa il gesto per far cadere le pareti del silenzio.
L’inchiostro sulla pergamena trattiene la caducità degli eventi e dei pensieri, garantisce la persistenza delle cose.
“I personaggi, in un percorso di trasformazione e maturazione, diventano persone: la finzione letteraria lascia il posto al documento, alla testimonianza orale, alla storia. Le molteplici domande che compaiono nelle lettere diventano l’auto-analisi di una nazione, che con le leggi razziali conosce uno dei momenti più drammatici della sua storia, e di una comunità, quella ebraica, qui in grado di leggere criticamente il succedersi degli eventi”.
Il lavoro è stato patrocinato dal Meis (Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah), dal Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), dall’Ucei (Unione Comunità Ebraiche Italiane) e dalla Comunità Ebraica di Ferrara. La consulenza scientifica è stata fornita dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.
Il tratto distintivo di ogni video è l’attenzione al particolare. “La mano stringe la penna, che oscilla irrequieta da parte a parte del foglio e registra il logorio psichico della persona consapevole che i cambiamenti della società stanno condizionando in modo indelebile la propria vita. Le parole codificano i pensieri volubili, carichi di tensione emotiva e angustia, e riempiono il foglio bianco. C’è sempre un misto di incredulità e pacata preoccupazione nella voce di Stefano, Francesco, Monica e Francesca, i quattro protagonisti di questa storia che si sviluppa tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del Novecento”.
Le note struggenti della musica di Martina Colli, le luci e le ombre, i pappi del tarassaco rubati dal vento – nella grafica di Giulia Pintus – sono il preludio ad un’interpretazione intensa, appassionata: primissimi piani, sguardi profondi, voci calde che orlano il silenzio.
Testi affidati a quattro attori di forte personalità, professionisti del piccolo e grande schermo.
Stefano Muroni interpreta la parte di un ebreo di Venezia, dipendente della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, che viene improvvisamente licenziato nel dicembre del 1938, dopo molti anni di onorato lavoro. Lui, come altre migliaia di ebrei italiani, invia una lettera al Duce: “Ci viene negato ogni diritto e non ne capiamo il motivo. (…) Attendo le parole che ci facciano di nuovo uguali agli altri”.
Gli appelli restano inascoltati, le persecuzioni diventano più violente e iniziano i primi attacchi fisici. Nell’ottobre del 1941 viene presa di mira la sinagoga di Torino. Una delle attrici italiane più importanti, Monica Guerritore, entra nei panni di un’ebrea torinese che cammina per le strade vuote del ghetto sotto una pioggia incessante: sono passati pochi giorni dall’affissione di manifesti e volantini con i nominativi degli ebrei della città, tra i quali il cognome della donna, che tornata a casa scrive una lettera commovente al marito, morto a New York: “La pioggia mi riconcilia con la vita, Mario, quella che ci toglieranno a breve”.
Dominano i luoghi chiusi: le mura di casa così come la Sala F del convento-caserma di San Bartolomeo a Campagna, in provincia di Salerno, sono la sede dei dubbi esistenziali e della presa di coscienza. Francesco Montanari scrive da uno dei campi di internamento del centro-sud della penisola, nella luce incerta di “due finestrelle che lasciano penetrare la luce sufficiente per sognare di scappare”. Perché, appunta Francesco, “La vita è una questione di spazio e quando non ne hai sei già un po’ morto”.
Come passeggeri su una metropolitana della memoria, si fa sosta nella Ferrara di Giorgio Bassani. Francesca Inaudi interpreta un personaggio ispirato a Matilde Bassani: arrestata perché la sera del 10 giugno 1943 affigge manifesti in ricordo a Giacomo Matteotti, una volta liberata scrive una lettera ad una amica per documentare ciò che le è accaduto. E nelle parole di Francesca, frante dalla sofferenza del ricordo, è racchiuso il senso profondo de ‘L’Ultimo grido’:
“Ti scrivo queste cose non per rivendicare i torti che ho subito, ma per lasciare una traccia di ciò che sta accadendo in questi anni. È una questione di memoria, anche se mi costa ricordare. A volte dimenticare è più facile”.
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