In lotta contro le fibromialgie, vittima di una modernità malata
Tempo di lettura: 6 minuti
di Barbara Diolaiti
“Cari tutti, sono in difficoltà. A causa della malattia devo farmi da mangiare utilizzando veramente pochi ingredienti e dopo sette mesi sono al limite della sopportazione. Se avete qualche ricetta da suggerirmi, qualcosa che conoscete, che fate già e che vi piace, in modo che possa cambiare un po’ il gusto o almeno l’apparenza di quello che mangio… potreste inviarmela? Gli ingredienti base sono…”
Quando, un paio di mesi fa, Silvia Belcastro ha chiesto aiuto via Facebook, è stata inondata di ricette, consigli e incoraggiamenti, ma soprattutto di altre storie, simili alla sua.
Silvia è affetta da fibromialgia ma “la parola – mi spiega – è ingannatrice, una campana che copre una miriade di patologie diverse e per questo sarebbe più corretto parlare di fibromialgie”.
Non è infatti una malattia, ma una “sindrome”, ovvero un insieme di sintomi che rimandano ad una o più malattie. La medicina non ha ancora fatto chiarezza: a monte di una sindrome fibromialgica possono esserci infatti una malattia reumatica, un quadro di allergia sistemica, i postumi di un incidente, uno stress cronico e molto altro ancora.
Il numero di persone colpite è in costante crescita e 9 su 10 sono donne, un dato che comincia a pesare sensibilmente sulla sanità italiana. Si tratta di migliaia di persone che soffrono di affaticamento cronico, allucinazioni, fortissimi dolori muscolari, difficoltà respiratorie… quando va bene. Nel caso di Silvia anche tre occlusioni intestinali operate in diversi ospedali italiani, un papilloma al seno e un quadro di malessere sistemico che l’ha resa progressivamente inabile nel corso dei quindici anni della sua giovinezza. Generalmente, queste persone vengono liquidate dai reumatologi (i primi specialisti a cui approdano), con frasi di circostanza: “si prenda una vacanza”, “la sua è una malattia che non esiste” o – nel migliore dei casi – con un documento che consenta loro di appellarsi alla legge 104 (ovviamente solo per i lavoratori dipendenti).
Ma nel caso di Silvia, il 10 giugno 2013, dopo oltre 15 anni di inabilità, per la prima volta c’è stata una diagnosi che ha fatto luce sul suo particolare tipo di fibromialgia. E’ cominciato dunque un percorso di cura durissimo e affrontato con l’entusiasmo che fornisce solo la speranza: assunzione di una grande quantità di farmaci differenziati e una ferrea dieta alimentare.
“Il mio – spiega Silvia – è un problema di intossicazione e poli-allergia. L’allergia ai metalli (nickel in particolare) ha giocato un ruolo fondamentale, ma in nessuna delle tre operazioni che ho fatto mi è stata prospettata questa ipotesi, nonostante in letteratura i pazienti gravi di Snas (sindrome da allergia sistemica al nichel), vadano anche incontro a occlusioni, allucinazioni notturne, problemi del sonno e affaticamento cronico… tutti sintomi che ho incontrato nella vita. L’allergia respiratoria sistemica al nichel è oggi considerata il glutine del nuovo millennio ed è causata principalmente dalla nostra continua esposizione a smog, Pm10, fabbriche che lavorano i metalli, inceneritori, oggetti metallici in acciaio inox (spesso composti da nichel per il 20%) e dalla continua ingestione di alimenti. Purtroppo infatti, il nichel è ovunque nella terra, dunque viene assorbito dalle piante e dai frutti. Una dieta vegetariana per noi può dunque essere fatale. Mangiando qualunque cosa e camminando per strada infatti, il metallo si accumula nelle cellule e questo genera una costante auto-infiammazione.”
Ma non finisce qui. Nel caso di Silvia, che non ha mai presentato la comune allergia da contatto al nichel, si sommano anche le cosiddette “allergie crociate”, un campo che sta montando alla ribalta dell’informazione proprio negli ultimi anni. Un sistema di incrocio e similitudini fra gli allergeni respiratori e gli alimenti che ingeriamo, per cui un gran numero di alimenti possono teoricamente scatenare crisi allergiche sistemiche in soggetti predisposti. Crisi allergiche che negli anni si trasformano in una sindrome fibromialgica, problemi digestivi, occlusioni, continue aftosi, crollo del sistema immunitario.
Oggi Silvia – lei che, con una madre anestesista e un padre chirurgo, non ha frequentato medicina ma si è laureata in letterature post-coloniali – è considerata un piccolo punto di riferimento nell’ambito specifico del suo problema. “Senza i social network e internet – riprende – non avrei mai conosciuto la cerchia di pazienti di cui faccio parte né avrei mai capito come gestire il mio problema. Siamo una famiglia. Ci aiutiamo fra noi, ci scriviamo pur non conoscendoci di persona anche se questo ci costa sacrificio e tempo, leggiamo testi in varie lingue e facciamo tutto il lavoro che la sanità non fa per noi”.
Silvia ha un blog molto frequentato in cui due pagine sono dedicate alla malattia. Mantiene contatti con le diverse associazioni presenti nel nostro e negli altri Paesi, si aggiorna, legge. “Tutti lo facciamo – dice – perché conosciamo le umiliazioni e l’inefficienza del sistema sanitario… un problema che spesso subiamo per dieci o venti anni prima di incontrare un illuminato e arrivare a una diagnosi”.
Ma la questione è di respiro ancora più ampio e chiama in causa il nuovo paradigma della medicina, una trasformazione a cui stiamo finalmente assistendo anche in Italia. “L’impegno principale delle associazioni è volto ad ottenere il riconoscimento legale della malattia e la possibilità di utilizzare la Legge 104. Il problema però è una sanità ancora inadeguata a gestire queste nuove patologie. Figlia del vecchio paradigma riduzionista e iper-specialistico, spesso non prevede una visione integrata dell’essere umano. Le avanguardie ci sono, ma bisogna andarle a cercare e questa ricerca costa in termini di soldi, fatica e tempo. Quasi tutti i malati hanno vissuto sulla loro pelle lunghi percorsi di diagnosi sbagliate perché i sintomi della malattia erano i più diversificati. Occorre dunque un approccio olistico sia nella diagnosi sia nella cura, a partire dal medico di base fino al reumatologo che per la prima volta si trova davanti un’ipotesi di fibromialgia, affaticamento cronico o sensibilità chimica multipla, le tre sindromi spesso considerate gemelle”.
Ma il problema non è solo questo. Nel novembre dello scorso anno si è concluso a Genova il Congresso Internazionale “Highlights in allergy and respiratory diseases”, appuntamento internazionale dedicato alle malattie allergiche e respiratorie. Secondo le statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità, si è verificato un costante aumento nella prevalenza delle malattie allergiche a livello globale e circa il 40% della popolazione mondiale è ormai colpita da una o più patologie allergiche. Una quota elevata di questo aumento si sta poi verificando nei soggetti giovani, dunque si prevede che – quando questa popolazione giovane raggiungerà l’età adulta – la prevalenza delle malattie allergiche sarà ancora maggiore.
“Considerato l’aumento di malati e il fatto che l’Oms ha indicato che nell’arco di pochi anni questo 40% diventerà un 60%… significa che presto più della metà della popolazione mondiale sarà affetta da allergie più o meno gravi al mondo in cui vive e al cibo che mangia. Saranno sempre di più le persone colpite da un cattivo stile di vita, un’esposizione costante ad allergeni e inquinanti e molte saranno le donne, fra cui molte vittime silenziose di stress cronico, molestie e abusi. Già riconosco queste persone al supermercato, quando le vedo cercare disperatamente fra gli scaffali qualcosa che possono mangiare. Mi chiedo dunque come si possa pensare di tamponare la situazione attraverso la monetizzazione dell’invalidità. E’ impensabile che gli Stati possano essere in grado di supportare economicamente un numero sempre crescente di malati. Il problema va affrontato e risolto alla radice, riducendo progressivamente tutte le fonti inquinanti, cambiando vita, cambiando modo di produrre. Il dato ambientale è elemento essenziale. E’ indispensabile un profondo cambiamento culturale, o i nostri figli saranno tutti allergici… molto più di noi”.
A Silvia ora è stato garantito che, nell’arco di vent’anni sarà guarita, ma a patto di rinunce continue: “Assumo farmaci, ho fatto yoga e meditato, ho eliminato persone e stress inutili, ho rinunciato, rinunciato e rinunciato a traguardi e carriere. Ma non basta. Quando si ha un’intolleranza sistemica bisogna fare della propria debolezza il proprio stile di vita. Non ci si può permettere alcuno stress e bisogna modellare la propria anima per arrivare a una felice, costante pacatezza. Non si può cedere a tentazioni alimentari né calcolare male le proprie forze. E’ necessario diventare persone migliori, concentrandosi sempre e solo su tutto quel che si ha. Bisogna imparare a camminare su un filo, come i funamboli. Trasferirsi e cambiare lavoro, se necessario.”
“So che è difficile” – ha scritto Silvia nel suo blog – “che ci vuole coraggio e pazienza… ma si può fare. Perché la verità è che nessun farmaco lo farà mai al posto vostro per tutta la vita. Ma la buona notizia è che se ce la fate, se tentate… pian piano comincerete a ricevere in cambio voi stessi.”
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Redazione di Periscopio
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