IMBOCCARE UN’ALTRA STRADA
Investire nei Servizi che abbiamo abbandonato
Ridurre le diseguaglianze che si sono aggravate
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Ho avuto modo di scrivere nei giorni scorsi su questo giornale dell’esito deludente degli Stati Generali dell’economia, [Vedi qui] Rispetto all’impostazione che mi è sembrata prevalente in quell’assise, e cioè di una dialettica tra Confindustria e governo, con differenze sui provvedimenti da adottare ma non alternativa nella visione di fondo, bisogna invece dire che la strada da battere dovrebbe essere tutt’altra.
Occorre avere il coraggio di percorrere un disegno che guarda ad un’idea alternativa di modello produttivo e sociale, un progetto che, al di là di come lo si voglia definire, capace di sottrarre alla logica di mercato e alla realizzazione di profitto la loro centralità nel definire le priorità nelle scelte economiche e sociali.
In primo luogo, serve un massiccio investimento nella scuola, nella sanità pubblica e, in generale, nei beni comuni. Per la scuola, anche solo per la ripartenza a settembre nelle condizioni imposte dal contrasto al Coronavirus, si tratta di mobilitare tra i 3 e i 6 miliardi (più del doppio di quanto sinora stanziato) per avere più insegnanti e reperire spazi adeguati per tornare alle lezioni ‘normali’, superando la modalità non utile della didattica a distanza. Sopratutto, va cambiato il modello aziendalista e di puro assecondamento alle tendenze del mercato del lavoro, che si è affermato negli ultimi anni, e colmato il divario nei confronti della spesa media per l’istruzione in Europa. Gli ultimi dati Eurostat disponibili, relativi all’anno 2017, mostrano, infatti, una percentuale della spesa suddetta nel nostro Paese per tutti gli istituti del sistema di istruzione (dalla primaria alla terziaria) pari al 3,8 per cento del PIL a fronte del 4,6 per cento della media europea, che attualmente ci colloca negli ultimi posti: l’Italia è quartultima tra i 28 paesi dell’Unione europea.
Per la sanità – senza dover ricorrere al MES, visto che i pochi risparmi in termini di minor tassi di interessi lì previsti, nel medio periodo costerebbero assai più cari sul piano delle condizioni da rispettare ( che rimangono non all’entrata, ma durante e alla fine del prestito) – l’ordine di grandezza dell’investimento necessario è perlomeno pari al definanziamento del sistema sanitario degli ultimi 10 anni e al raggiungimento dei livelli della spesa percentuale di Paesi come la Francia e la Germania. Non ci discostiamo di molto da circa 40 miliardi di Euro, che vanno prioritariamente utilizzati per potenziare i servizi territoriali, l’attività di prevenzione e il numero degli operatori, ridottosi fortemente in questi anni.
Oltre a questi interventi fondamentali nei campi principali del Welfare ( a cui, peraltro, ne andrebbero aggiunti altri, in particolare quelli volti a ripubblicizzare i servizi pubblici consegnati ai privati, dall’acqua al ciclo dei rifiuti), punto decisivo diventa quello di mettere in campo un Piano straordinario di investimento e intervento pubblico, in grado di produrre una nuova traiettoria di crescita sociale e occupazionale.
Qui non si tratta – come non smette di proclamare ad ogni piè sospinto il presidente di Confindustria Bonomi – di voler essere dirigisti o di imporre una sorta di visione astratta e ideologica per affermare il primato dell’intervento pubblico rispetto al mercato, ma di avere la consapevolezza che non sarà il mercato a poter dare risposte utili alla crisi aperta dinanzi a noi. Persino Cottarelli – il padre della spending review, fustigatore della spesa pubblica- riconosce che gli investimenti pubblici sono quelli che generano il ‘moltiplicatore’ ( cioè l’impatto sulla domanda e sull’occupazione) più alto rispetto ad altri tipi di interventi, come quello sull’IVA o sul fisco. A maggior ragione se si considera che le questioni da affrontare implicano un salto di paradigma rispetto agli orientamenti ‘naturali’ del mercato e che sono rappresentate dalla riconversione ecologica dell’economia, dalla cura e risistemazione del territorio e dalla creazione di lavoro, che vanno assunte come obiettivi in quanto tali. E’ su questi terreni che vanno indirizzate le risorse – e non solo quelle – che deriveranno dal Recovery fund che arriverà dall’Europa, anche se probabilmente depotenziato rispetto alle ipotesi iniziali.
A questi interventi, poi, bisognerà affiancare un’azione forte per ridurre le disuguaglianze sociali che si sono prodotte e amplificate in questi anni. Questo tema è stato finora troppo oscurato e sottovalutato, e non casualmente. Vale la pena approfondirlo.
Nel nostro Paese, secondo i dati elaborati da Eurostat nel 2018, il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dal 20% della popolazione con il più alto reddito e quello ricevuto dal 20% della popolazione con il più basso reddito è pari a 6,09. In sostanza il 20 per cento delle famiglie più ricche in Italia ha un reddito annuale oltre sei volte superiore rispetto a quello del 20 per cento delle famiglie più povere, che è il quinto rapporto più alto nell’Europa a 28 Stati, superati in questo solo da Lettonia (6,78), Lituania (7,09), Romania (7,21) e Bulgaria (7,66), mentre quelli di Germania e Francia sono pari rispettivamente a 5,07 e 4,23. Peraltro la media Ue a 28 Stati risulta essere di 5,17.
Ancora peggio va se guardiamo alla distribuzione della ricchezza ( che misura non il reddito, ma il patrimonio posseduto): qui l’elaborazione di OXFAM ci dice che la ricchezza del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41% della ricchezza nazionale netta) è superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. La posizione patrimoniale netta dell’1% più ricco (che detiene il 22% della ricchezza nazionale) vale 17 volte la ricchezza detenuta complessivamente dal 20% più povero della popolazione italiana.
Sono dati impressionanti, se ci si sofferma un attimo a rifletterci sopra, che rendono necessario un intervento perlomeno per ridurre questa forbice. E, si badi bene, non solamente per una ragione di equità, ma anche perché, come ormai è sufficientemente noto, la crescita delle disuguaglianze è anche una delle radici da cui diparte la stagione delle crisi iniziata con il 2008. Non c’è dubbio – e questo vale in particolare per il nostro Paese – che la crescita della domanda interna, sostenuta in particolare dai redditi bassi e medio bassi, è componente importante per disegnare una nuova traiettoria di uscita dalle crisi. Non mi dilungo sui vari interventi che si possono mettere in campo in proposito: da una reale riforma fiscale che ripristini un tasso consono di progressività fiscale (a questo proposito sembra un’eresia ricordare che nel 1974 l’aliquota fiscale sui redditi superiori a 75.000 Euro andava dal 54 al 72%, mentre oggi essa è al 43%) all’istituzione strutturale di un reddito e di un salario minimo garantito, arrivando anche – altra eresia – alla tassazione sui grandi patrimoni.
Tutto quanto esposto rischia però di essere un’esercitazione intellettuale se, a partire dall’autunno, non si produrrà una mobilitazione sociale adeguata allo scontro che si profila. Una mobilitazione sociale che sui punti decisivi di una piattaforma di politica economica e sociale alternativa riesca a creare uno schieramento largo, partendo dalla costruzione di connessioni tra i vari movimenti sociali e, possibilmente, anche con il movimento sindacale. Vale la pena iniziare a lavorare per questa prospettiva.
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Corrado Oddi
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