L’INTERVISTA
Ilaria Corli pedala sul mondo e prepara la sua sfida estrema: TransAmerica in totale autonomia
Tempo di lettura: 9 minuti
(Pubblicato il 26 febbraio 2016)
E’ nata in provincia di Piacenza nel 1987, ma ci tiene a dire che è “ferraresissima”. Ilaria Corli, infatti, vive da sempre a Ferrara, città delle biciclette, e lo scorso luglio ha compiuto 28 anni sul circolo polare artico, raggiunto proprio in sella alla sua bici, partendo dalla città estense. Sì perché Ilaria, oltre che un tecnico federale di triathlon, è una ultracycler – quelli che… di chilometri in bici ne fanno davvero un bel po’ – con nelle gambe già diversi viaggi: l’ultimo appunto l’estate scorsa verso Caponord, 4.300 km in 30 giorni in solitaria. Ora si sta preparando per la prossima sfida: la Trans America Bike Race, non più un pur impegnativo viaggio in solitaria, ma una vera e propria competizione ultracycling – ossia in totale e assoluta autonomia – attraverso gli Stati Uniti, seguendo più o meno il percorso della celeberrima Route 66.
L’ho incontrata nella nostra redazione che Ilaria ha raggiunto, neanche a dirlo, pedalando.
Ilaria, come e quando è nata la tua passione per le due ruote?
Ho iniziato a fare triathlon, che comprende anche la specialità della bici, nel 2010. La passione è nata grazie alla bicicletta di mio nonno: d’estate, quando avevo tempo, mi piaceva pedalare lungo gli argini, facevo fino a 80-90 km, non male per l’età e l’esperienza che avevo. Partivo da casa e facevo giri in bici nei paraggi. Poi ho iniziato ad allungare le distanze e se, per esempio, dovevo raggiungere degli amici o determinati eventi, lo facevo in bicicletta (Ilaria fino a tre anni fa aveva anche la passione della musica e suonava in una band, ndr). Così si è sviluppata la passione per le grandi distanze e i viaggi in solitaria.
Che sensazioni ti dà la bicicletta?
Una sensazione di libertà, di indipendenza, di ricerca di me stessa: può sembrare un’esagerazione, ma grazie alle tante ore passate a pedalare da sola, la bicicletta mi ha permesso e mi permette di riflettere, di stare a contatto con la natura e con i miei pensieri. Grazie a queste esperienze, alla riuscita dei miei viaggi la fiducia in me stessa è cresciuta perché ho affrontato strade e limiti che non sapevo di avere e che ho superato. Quando esco da sola e mi trovo di fronte a un bivio decido sempre in autonomia in base a quello che mi sento di fare in quel momento: spesso decido di prendere la strada che non conosco, mentre altre volte voglio rimanere concentrata su me stessa, immersa nei miei pensieri e quindi scelgo la strada che conosco bene, così so dove vado e posso concentrarmi sulle mie sensazioni ed emozioni. Grazie alla bicicletta, infatti, ho imparato a sentire, ad avere più sensibilità, più contatto con il mio corpo: per esempio riesco a essere più ricettiva rispetto ai segni di stanchezza, che possono essere anche minimi, ma cogliendoli subito so quando devo rallentare ancora prima di stancarmi. E questo non lo sfrutto solo per gestirmi durante gli allenamenti, è una sensibilità che mi serve anche nelle altre attività della mia vita quotidiana, come lo studio.
Cos’è l’ultracycling?
È una branca del ciclismo che in realtà comprende tutto ciò che sta tra le otto ore di gara e la Raam (Race Across America), una gara con supporto di circa due settimane. Esistono una federazione nazionale e una internazionale che organizza gare.
Oltre alle vere e proprie competizioni, nell’ultracycling si possono includere le imprese in solitaria oppure anche le randonnee, manifestazioni amatoriali non competitive con un tracciato da seguire, ma senza classifica finale. Io mi definisco come ultracycler proprio perché mi piace fare lunghe distanze semplicemente per il piacere di pedalare, senza avere una classifica.
Passiamo ora alle tue imprese: la prima è stata Barcellona nel 2013, poi Oslo nel 2014, e infine Caponord nel 2015.
Ero stanca di rimanere in zona, perché anche se facevo 200 km, alla fine non andavo mai così lontano da casa. Avevo voglia di andare da un punto all’altro, di cambiare paesaggi e magari anche di uscire dall’Italia. Perciò ho deciso di buttarmi e ho scelto un percorso abbastanza facile e che mi facesse rimanere in un paese con un clima simile a quello di casa, per non avere troppi problemi di equipaggiamento, dato che ero al mio primo viaggio. Per questo la meta è stata Barcellona, anche se avrei voluto andare al Nord, che è un po’ il paradiso della biciletta. Ho deciso di impacchettare la bici in un grande scatolone e spedirla nella stiva di un aereo per Barcellona, per poi percorrere la strada a ritroso, piuttosto che arrivare in aeroporto in Spagna e avere il problema di dover trovare un modo per imbarcare il mio mezzo. Ho fatto 1.200 km in sei giorni, 200 km al giorno. L’anno dopo mi sentivo pronta per il Nord e ho deciso di partire da Ferrara e arrivare a Oslo: doppia distanza e doppio del tempo di percorrenza, 2.400 km in 12 giorni. È stato un viaggio veramente bello. Quando sono arrivata a Oslo, ho sentito dentro di me il desiderio di andare verso Capo Nord: un sogno che in realtà avevo da molto tempo, ma mi serviva un po’ di esperienza. Raggiungere Capo Nord, significa attraversare il continente da Sud a Nord e poi, quando ho iniziato ad andare in bicicletta e a leggere che viaggi facevano gli altri cicloturisti, ho imparato che è una meta ambita. Nel 2015 ero pronta e così il 20 giugno sono partita: 4.300 km in 30 giorni. Un’esperienza che ho condiviso sulla mia pagina facebook e che è poi diventata un libro: “Pedalando verso Capo Nord. Un sogno lungo trenta giorni”. Mentre i primi due viaggi li ho potuti un po’ improvvisare, Capo Nord ha richiesto una preparazione più particolare, essendo una distanza maggiore ed essendomi anche imposta il limite dei 30 giorni: sono stata seguita per tre mesi da un allenatore.
Come si prepara un viaggio in solitaria come quelli che affronti tu?
Serve tempo e sacrificio. Da marzo scorso sono seguita da un allenatore, da un gruppo di nutrizionisti dell’Università di Ferrara e da una psicologa dello sport. Mi preparo con allenamenti di triathlon, ovviamente con la prevalenza della bici, e faccio allenamenti in solitaria, perché mi devo abituare anche semplicemente a stare sola, per esempio per affrontare da sola i momenti di crisi psicologica che posso avere.
Per quanto riguarda le tappe, non mi piace pianificare più di tanto, certo guardo il percorso perché devo sapere quello che mi aspetta. Non prenoto subito tutti i pernottamenti perché ci sono sempre inconvenienti, una foratura, un po’ di stanchezza, il brutto tempo, oppure può capitare che quel giorno mi senta in forze e quindi posso allungare la distanza rispetto a quella prefissata: solitamente prenoto il pomeriggio o la sera prima attraverso un’applicazione del telefono, dopo aver guardato il meteo e a seconda delle mie condizioni fisiche.
Cosa è cambiato in questi tre viaggi?
Le difficoltà soprattutto. Barcellona non era impossibile e se anche avessi impiegato qualche giorno in più rispetto a quelli che mi ero prefissata non sarebbe capitato nulla. Inoltre avevo già viaggiato in Francia e Spagna, perciò sapevo quello che mi aspettava. Questo già non era più vero nel caso di Oslo, perché non ero mai stata in Svezia o Norvegia. A maggior ragione nel 2015 nel viaggio per Capo Nord. Un conto è andare in Spagna: è quasi come viaggiare in Sicilia. Un conto è andare verso Nord: c’è il freddo, sei più lontana da casa. Ti metti più alla prova.
In ogni caso ogni viaggio ti mette alla prova e ti dà piccole opportunità di crescita.
C’è qualche aneddoto che ci vuoi raccontare del tuo viaggio verso Capo Nord?
Durante i miei viaggi ho incontrato due tipi di persone: le persone che mi aspettavano perché mi ospitavano e i ciclisti o i camminatori che ho incontrato lungo la strada e con i quali è capitato di condividere un pezzo del percorso.
Un incontro interessante l’ho fatto il terzo giorno mentre ero ancora in Italia, a Gemola del Fiuli. Sono partita la mattina anche se pioveva a dirotto, tanto che non ho voluto usare il navigatore per paura che si potesse guastare. E così ho sbagliato strada, ma me ne sono accorta solo dopo un po’ perché scendevo, mentre avrei dovuto salire verso il Tarvisio. Nel frattempo ho visto arrivare verso di me un signore in bici con il suo ombrello e ho deciso di chiedere informazioni. Mi ha detto che dovevo tornare indietro e che mi avrebbe accompagnato perché tanto andava nella mia stessa direzione. Mentre pedalavamo mi ha chiesto dove stavo andando e all’inizio non mi credeva quando gli ho detto che volevo arrivare fino a Capo Nord. Insomma è andata a finire che, nonostante la pioggia e nonostante non avesse l’equipaggiamento, mi ha accompagnato per circa 50 km fino quasi al passo del Tarvisio perché, mi ha detto, un’occasione così non gli sarebbe mai più ricapitata.
Nel 2016 hai messo in cantiere un’altra sfida, questa volta al di là dell’Atlantico. Il 4 giugno inizierà la tua prossima impresa: la Trans America Bike Race, una competizione coast to coast di 6.800 km non stop, con 65.000 metri di dislivello attraverso dieci stati, con partenza da Astoria (Oregon, sul Pacifico) e arrivo a Yorktown (Virginia, sulla costa Atlantica), in autonomia completa senza equipaggi al seguito.
Mi viene un po’ di ansia mentre lo dici. È il terzo anno che si tiene e il percorso è più o meno lo stesso della Route 66. È una gara non stop, vince il primo che arriva al traguardo dall’altra parte, c’è il divieto di scia, cioè non si può stare dietro gli avversari per sfruttare la loro scia, ed è in completa autonomia, cioè non si possono ricevere aiuti dall’esterno: devo avere con me tutti i tipi di equipaggiamento, devo procurarmi il cibo da sola…
È ancora più impegnativa rispetto ai viaggi precedenti non solo per la distanza da percorrere, ma per il dislivello, il punto più alto è a 3.500 m di altezza, e per l’escursione termica.
Come allenamento il 6 marzo farò la Granfondo Po, 140 km in piano e in scia, e il 23 e 24 aprile la Rai (Race Across Italy) che prevede un percorso Adriatico-Tirreno-Adriatico: sarà la mia prima vero gara di ultracycling. Una bella prova perché sono circa 810 km, con 15.000 metri di dislivello, da fare in due giorni e io ho deciso di farla in autonomia, anche se si potrebbe farla con equipaggio al seguito. Mi servirà soprattutto per capire a che punto della preparazione sono.
Alcuni momenti del viaggio di Ilaria a Capo Nord. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
Uscendo un po’ dall’ambito dell’ultracycling, ma rimanendo nel mondo delle due ruote: che ne pensi della campagna per la bicicletta Premio Nobel per la Pace perché è “il mezzo di spostamento più democratico a disposizione dell’umanità, che non causa guerre, non inquina, fa bene al corpo e alla mente”?
Appoggio le campagne come questa e sicuramente la bici può essere considerata un mezzo ecologico, che facilita il dialogo e la socializzazione, che fa vedere le cose da un altro punto di vista.
Il triathlon, l’ultracycling e la bici in generale, non vengono spesso associati al genere femminile. Le cose stanno cambiando?
Se non sei dell’ambiente è difficile che se ne parli. A mio parere si è assistito a due fenomeni che sono andati di pari passo: tante donne si stanno sempre più accostando alle due ruote, non è più uno sport prettamente maschile, e poi la bicicletta è sempre più considerata, ci sono più persone che si avvicinano alla bici, non solo per agonismo, ma in modo amatoriale per il senso di benessere e per il piacere di una pedalata in compagnia, ci sono anche sempre più campagne ed eventi promozionali per l’uso delle due ruote.
Tu sei anche allenatrice di triathlon e i tuoi allievi hanno dai 4 ai 18 anni, se ti chiedessi perché i ragazzi e le ragazze devono saltare in sella a una bici?
Più che altro devono provare esperienze diverse: devono saltare in sella a una bici, devono calciare un pallone, devono imparare a nuotare. In generale, secondo me, devono saper lavorare bene e in sintonia con il proprio corpo perché lo conoscono bene. E poi siamo a Ferrara: non si può non saper pedalare, la bici è una cultura!
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