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Entra con l’aspetto di un ragazzetto svagato: camicia blu, gilet grigio, calzoni neri come usano ora, larghi fino al ginocchio, poi fasciati. Una cintura di stoffa amaranto e grigio li tiene su. Il lato B è un po’ callipigio e la folta capigliatura nasconde, quasi, due occhi che al momento in cui l’orchestra attacca si chiudono come in stato di ipnosi, poi si spalancano: stralunati. Tiene il suo Stradivari Huberman del 1713 come fosse un’arma che punta ora sull’orchestra ora verso il pubblico. Si chiama Joshua Bell ed è tra i violinisti più celebri del mondo. A 17 anni suona con Muti. Ora ne ha 47 ed è direttore musicale dell’Academy of St Martin in the Fields.
Suona come un ragazzo: un po’ “strapazzone” un po’ trasognato. Nel viso dotato di una mobilità estrema passano nuovole e sole, calma e irrequietezza, guerra e pace.
Ero andato per sentire Bichkov, il direttore inafferrabile ma, come spesso succede, rinuncia e lo sostituisce Krivine francese di padre russo e madre polacca, molto ricamatore che usa le mani come manipolasse la pasta mentre la Chamber Orchestra attacca il concerto per violino di Brahms. Ma dopo Bell capisco che quello che sto sentendo è unico e irripetibile.
Questo per rimarcare che nella età della riproduzione nulla può sostituire un concerto dal vivo. La gestualità, l’attenzione, gli umori corporei tra il sudore e gli sputacchi necessari dei suonatori degli strumenti a fiato, l’espressione, le ‘mises’ delle concertiste creano l’esecuzione che non potrà mai esser uguale, sera dopo sera, ripetuta innumerevoli volte e sempre diversa. La sto ascoltando in disco mentre scrivo con lo stesso violonista. È un’altra cosa.
Una bellissima violoncellista, esile e pallida siede sull’orlo estremo della seggiola. M’immagino che possa cadere da un momento all’altro nel finale clamoroso. Ma non ha più corpo sembra puro spirito. Un contrabassista muove la testa come una preghiera recitata in Sinagoga, un pacioso con aria severa suona la viola. Dai frac che rivelano l’usura escono calzini corti. Chi ha scarpe di vernice, chi sportive. Un ombra di barba copre alcune guance; altre sono perfettamente rasate. Sembrano un poco spaesati poi il frullo delle mani del direttore propone più che impone un’altra dimensione. E la bellezza non ha più ostacoli. Dimentichi tutto. Anche di trattenere un colpetto di tosse. Sei nello spazio e nel tempo della musica. E sei felice.
La mattina seguente prendo la freccia per Firenze. Apro il giornale e distrattamente l’occhio è condotto a guardare l’abbigliamento maschile della prossima stagione. Alcuni modelli sono vestiti come il geniale “strapazzone”; altri con il viso enfaticamente atteggiato a disprezzo, secondo la cultura modaiola, evocano la sublime battuta di Fantozzi all’ennesima replica della Corazzata Potëmkin: «è una boiata pazzesca». Poi leggo l’umiliazione a cui la cultura sembra doversi piegare a confronto con i diritti e le prepotenze del fattore economico. “L’annunciazione” di Leonardo custodita agli Uffizi, pur dichiarata dal direttore Natali “inamovibile” deve andare all’Expo. Rimango basito e m’immagino come il grande violinista si comporterebbe dove non ha voglia né requisiti d’andare. O ancor peggio se la stessa richiesta fosse stata fatta alla National Gallery di Washington e non soddisfacesse per ragioni serie il giudizio del direttore. La provincialità di una simile forzatura ben dimostra il carattere degli “itagliani” sempre pronti ad invocare un diritto di cassa che non risulterà tale se non per le schiere dei processionari dell’Expo a cui un Leonardo, forse, non farà né caldo e né freddo.
Non s’invochi poi il trito concetto che le opere debbono viaggiare per farsi conoscere. Pur ammettendolo, ma non del tutto convinto, penso che un conto è esporre un’opera a una mostra, un conto nel bailamme della mangereccia Expo dove un quadro simile non ha né senso né utilità.
Ma perché non far viaggiare grandi opere contemporanee? Così amate, così frequentate anche dai non addetti? Si promuova l’arte contemporanea così in linea con un’esposizione che ha per tema il cibo.
Certo! Il cibo della mente è sempre nutriente ma la fame della mente, oggi, dovrebbe consentire più di rivolgersi all’opera della contemporaneità che ai nomi attrattivi del passato: una patente consunta per l’acclarata consistenza del “nome”.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.


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