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Ho un inquilino nella mia cabina. È già da un po’ che lo seguo nei suoi spostamenti. Beh non è proprio come uno se lo aspetterebbe. Prima di riuscire a chiudere occhio, lo sento mentre graffia con le zampe le pareti di lega. Cazzo, mi fa imbestialire quel rumorino notturno, specie quando sai che la notte qui non esiste e il giorno men che meno.
Una specie di topo. In ogni stiva ce n’è almeno uno, anche in quelle spaziali. Non è proprio come quelli di Terra, ha le orecchie più allungate tipo pipistrello e gli occhi di lince per guardare meglio nel buio. L’ho visto in un documentario a casa. Sono chiuso in questo buco, nel culo dell’universo fino a data da destinarsi. Forse dovrei farmelo amico. Dovrei allungargli un po’ della mia razione giornaliera e passare del tempo con lui. Sì forse dovrei.

«Ehi rifiuto, alzati, andiamo dal capitano Douglas, vuole fare due chiacchiere con te».
«Il tuo capitano lo sa che tratti così i suoi ospiti?».
«Sei proprio spiritoso numero 56, questo è solo il benvenuto, vedrai che risate con il capitano».
E mi prende di forza per il braccio, il bastardo, senza esitazione.
«Ah bene, finalmente un po’ d’intrattenimento. Cominciavo ad annoiarmi».

La cabina del famoso capitano Douglas era al 16° piano dell’enorme nave spaziale Tiberius, che faceva capo a una delle più grandi e fottute multinazionali del globo.
In realtà, era molto probabile che la società che dirigeva alcuni tra i più squallidi esperimenti terrestri, non esistesse più. Forse nemmeno tutto quel fottuto mondo che conoscevamo, che con le esplorazioni spaziali era rimasto solo un piccolo pianeta chiamato Terra, esisteva più. Erano anni che non si registravano comunicazioni da Terra, e nessuno se ne preoccupava. Tutti continuavano il loro lavoro nelle sedi distaccate, senza chiedersi il perché e seguendo gli ordini impartiti da Terra una decina di anni addietro. Per la Tiberius invece la scusa era sempre quella, mandare in avanscoperta un manipolo di scienziati in giro per lo spazio, per trovare una risposta alla malattia che stava sterminando la nostra razza. Certo quel bastardo di un virus – se davvero di virus si trattava – non aveva attaccato tutti indistintamente. Era ingegnoso, aveva ucciso solo i bambini. E quello che più faceva paura era che i poveretti non si ammalavano di febbre o chissà cosa – per poi morire come cristo comanda – quei mocciosi diventavano improvvisamente vecchi e decrepiti, fino a tirare le cuoia. Bah, trovare una risposta adesso che senso poteva avere? In dieci anni chissà che cazzo era successo lì. Che tipo di ottusaggine porta una massa di scienziati idioti a cercare risposte anche senza un vero motivo? Denaro e notorietà. Niente era cambiato. Nonostante si fossero superati da tempo i confini della galassia.
Comunque sia, non era certo bello per i genitori – lo devo ammettere – con tutte le restrizioni legali per avere una discendenza e tutti i problemi di procreazione degli ultimi anni, veder invecchiare un figlio invece della nonna. Non era davvero naturale.
Dopo tutto di naturale non era rimasto più molto ormai.

Nella lussuosissima cabina del capitano c’era la moquette più costosa e morbida che avessi mai visto, o meglio, calpestato. Che fosse stata di pelle umana? Era probabile. Questi scienziati non riescono mai a distinguere tra cosa è umano e cosa non lo è. Il più delle volte cercano di innestare impianti emozionali in un robot mentre riempiono – da capo a piedi – un povero cristo di chissà quali diabolici aggeggi meccanici.
Ci provano gusto a fare questi scambi, quasi fosse necessario. Quei bastardi avevano carta bianca quando si trattava di materiale umano da laboratorio, e io non facevo eccezione. Si facevano passare per medici e ci tenevano alla nostra salute. Sì che ci tenevano, da quando quella fottuta malattia era arrivata, subito seguita dal potere di decidere delle nostre vite.

«Signor John Earthman, come lei ben saprà abbiamo avuto l’autorizzazione per prelevarla dalla sua abitazione su Marte, semplicemente per qualche accertamento».
«Non ricordo di aver fatto nessuna richiesta del genere, tantomeno di aver rilasciato la mia autorizzazione».
«Signor Earthman, non sia sciocco. Lei sa benissimo che non c’è bisogno di nessuna richiesta né autorizzazione da parte sua. Ad ogni modo non deve preoccuparsi. Le faremo solo una piccola serie di analisi e accertamenti, quindi la terremo sotto osservazione per qualche settimana. Nessuno è mai morto per questo».
«Lo dice lei. Ne ho di amici ritornati ciechi o zoppi nel migliore dei casi. E nei peggiori… ».
«Solo cattiva pubblicità, signor Earthman. Solo cattiva pubblicità. Lei non ha niente di cui preoccuparsi qui sulla nave».
«La porteremo in camera sua appena finito il tutto, buona permanenza».

Lo stronzo predicava bene – pensavo – mentre due guardie mi portavano in laboratorio. Cosa cazzo c’entravo io coi bambini? Con la malattia? Perché proprio io, un adulto, che aveva vissuto quasi sempre su Marte e che della Terra aveva sentito parlare solo nei video giornali? Mi avevano insegnato a non fare domande e ancor meno a cercare di capire quali idee passassero nella loro mente contorta.
«Sicuramente non troveranno niente e mi riporteranno a casa quanto prima».
Continuavo a ripetermelo passo dopo passo, fino in laboratorio, ma a dire la verità cominciavo a non esserne affatto sicuro.

La “sala delle torture” era tutta bianca e stranamente ammobiliata con un solo metallico lettino posizionato proprio nel centro, gelido alla vista.
Dov’erano tutte le provette? Gli strani arnesi che ogni fottuto dottore doveva avere, tipo stetoscopio o cose del genere? E soprattutto dove nascondevano quello che più odiavo, ovvero siringhe e boccette per il sangue? Ma che razza di laboratorio delle analisi era quello?
Mi trovavo faccia a faccia con quella che pensavo fosse la “sala delle torture” ed era tutto qui? Un lettino gelido sperduto in una stanza? Sì, certo, mi aveva sfiorato il paragone con un lettino da obitorio e qualcosa mi diceva che non c’era di che rallegrarsi.

Quando mi svegliai nel mio letto – o meglio nel letto di quella che per qualche giorno era stata la mia cabina – capii perché i tanti racconti dei superstiti sulla “sala delle torture” fossero sempre vaghi e confusi.
La testa che girava come dopo una sbronza notturna. Le orecchie che fischiavano come dopo una giornata passata a sentire thrash metal. Eh sì, bei tempi! Non c’è che dire, il paragone calzava a pennello. Ed eccomi qui di nuovo a chiedermi se fare amicizia o meno con il mio coinquilino topo.
Il riflesso che vedevo nello specchio davanti al letto era rassicurante. Beh sì, avevo i capelli un po’ sconvolti, ma la faccia era serena e insolitamente più distesa. Mi accorgevo solo adesso di quella differenza. Lo specchio non c’era al mio arrivo. Che razza di test del cavolo mi stavano menando?
«La terremo in osservazione per qualche settimana».
Sì, dovevo arrivarci, lo stronzo me lo aveva promesso. In quel momento nessuno poteva negarmi un gesto di disapprovazione. Niente di che, il classico dito medio alzato. Rivolto allo specchio ovviamente.
Avevo sprecato metà delle ore in una prigione di latta a guardarmi in faccia e a immaginare cosa avrei fatto a quegli spioni di merda che sicuramente mi scrutavano dall’altra parte. Mentre l’altra metà era tutta impegnata su un altro fronte. A che razza di esperimento mi avevano sottoposto?
Domanda lancinante. Più passava il tempo e più pensavo che le due cose fossero collegate. Perché guardarmi allo specchio era diventato un’ossessione. Strano che non vedessi più quella cicatrice sul mento che mi ero fatto più di un anno fa. Era stato difficile fare l’abitudine a uno sfregio del genere, ma era quantomeno imprevedibile che potesse così tanto sconvolgermi la sua assenza.
Che strazio non aver niente da fare. Niente che t’impegni il cervello.

Uno scatto ed eccolo tra le mie mani. Il topo spaziale doveva essere un cucciolo. Dal rumore che faceva me lo ero immaginato più grosso. Chissà dove aveva la sua tana. Sicuramente nei condotti dell’aeratore. La curiosità morbosa è sintomo di noia. Lo lasciai libero e lo seguii con lo sguardo. Dietro il letto, esattamente verso la grata dell’aeratore. Bene, dovevo aspettare che si spegnessero le luci.

«Signor Memphis, come procede la mutazione?».
«Tutto secondo i nostri calcoli, capitano Douglas, al secondo giorno dopo l’uso del preparato, cicatrici e rughe di espressione cominciano a scomparire».
«Bene, bene. Tenga tutto sotto controllo e mi comunichi ogni minimo cambiamento: temperatura corporea, elasticità cutanea, sudorazione, pressione sanguigna… ».

Troppo facile infilarmi nel condotto dell’aria insieme al topo, dopo aver preparato un fantoccio nel letto. Ben altra cosa poi sarebbe stata cavarsela dopo la mia fuga, all’attivazione dell’allarme. Mi chiedevo come cazzo avrei fatto a scappare, ma forse avrei trovato qualcosa di più, almeno una spiegazione a tutto quello. Niente di speciale. Volevo sapere per cosa mi stavo giocando la pelle.
Stretto, troppo stretto il cunicolo. L’ideale per la mia claustrofobia. Ma cosa mi era saltato in mente, pensavo forse che il terrore passasse solo perché ero curioso di avere una risposta?
Anche perché morire per le stronzate era diventata una norma da noi, l’indolenza pure, e non si poteva scappare da una nave in mezzo al fottuto spazio. Le navette erano l’unica area militarmente sorvegliata, andare a zonzo per la Tiberius non era difficile, eravamo “ospiti” per il capitano Douglas. Ma la curiosità non era ammessa.
Sì, perché mentre mi dimenavo al buio nella ricerca disperata dell’ uscita, pensavo che era più la curiosità a spingermi oltre che non la paura di morire.
Luce, la luce… aria, sì aria!
Dopo aver fatto l’uomo-ragno ora dovevo diventare l’uomo-invisibile. Non mi ci vedevo proprio a fare il supereroe. Roba vecchia, fumetti del tempo che fu. Le guardie dormivano. Il loro lavoro era troppo pesante. Che fatica sudarsi quello stipendio da re! Cazzo, forse qualcuno avrebbe potuto svegliarsi. Era meglio affrettarsi. Si fa presto a sfilare dalla tasca di un dormiglione la key card, e sgattaiolare per il corridoio di chissà quale dei sedici piani. Stava per passare la ronda notturna. Era meglio infilarsi in una porta, una qualunque, senza pensarci.

Pessima idea. Quella che mi si presentava davanti era una specie di prigione per soggetti sottoposti a sperimentazioni invasive di quarto o quinto grado.
La stanza era tutta blu, con tante piccole gabbie di vetro disposte a semicerchio e perfettamente linde. Ogni celletta era collegata a un macchinario che monitorava i soggetti lì rinchiusi. “Soggetti”, quanto odiavo quella terminologia saccente tipica degli scienziati sottomessi al volgare dio denaro. Quelle – e mi ci mettevo anch’io – erano solo delle cavie da laboratorio. Sì, perché mentre il topo spaziale girovagava indisturbato per la nave, io e gli altri eravamo solo carne da macello.
Possibile si trattasse di bambini? Ne contavo almeno una trentina. Non credevo ne esistessero ancora! Erano lì per niente disorientati, austeri e dimessi alla volontà dei padroni, ormai rassegnati al peggio. Non era cosa da bambini. Tutti noi abbiamo avuto quel momento di pura anarchia del pensiero e delle azioni. Solo l’età della ragione ci aveva fatto diventare emotivamente statici e indolenti anche alla morte.
Mentre guardavo esterrefatto la tranquillità di quelle facce quasi sopite, mi piombarono addosso le guardie. Era naturale che succedesse, non mi ero neanche accorto dell’allarme che suonava. Mi dispiaceva soltanto non capire il perché di quella situazione.

«Ehi calma. Calma teste di cazzo, portatemi dal capitano, devo parlargli… ».
«Che avevi intenzione di fare? Pensavi di poterci sfuggire? Tranquillo, è proprio lì che vogliamo portarti, rifiuto! Te la vedrai direttamente con lui, numero 56».
«Ah bene, così potrò dirgli che dormivate mentre io me la squagliavo».
«Continua a fare lo spiritoso, non sai quel che ti aspetta».

Il capitano Douglas era tutt’altro che allarmato. Sedeva alla scrivania disteso e calmo.
«Signor Earthman, cosa dobbiamo fare con lei? Mi spiega perché la lasciamo nella sua confortevole cabina e poi la ritroviamo in altre aree non autorizzate della nave?».
«Curiosità, semplice curiosità. Mi annoiavo a stare in cabina tutto quel tempo, sa com’è…».
«No, non lo so numero 56. Sa benissimo che la curiosità non è ammessa. Né qui, né sul distretto Marte, dovrebbe saperlo».
«Allora perché non mi dice com’è riuscito a trovare tutti quei bambini? Non erano tutti morti? E se li avete trovati perché continuate a fare esperimenti del cazzo su di noi?».
«Calma signor Earthman. Quelli non erano bambini. Ha detto giusto, sono morti tutti, anche su Terra. Se fossimo arrivati a questa scoperta non avremmo continuato a ospitarvi qui per qualche semplice test».
«Stia tranquillo ora, la riportiamo nella sua cabina. Avrà modo di pensarci e lo capirà molto presto, glielo assicuro».
Le guardie già provvedevano a spintonarmi per eseguire gli ordini del capitano.
«Non sono pazzo! Ho visto bene! Erano bambini e voi non volete dirci la verità, maledetti!».

La visione della mia stanza vuota – sempre più paragonabile a una cella – era ormai una consuetudine insopportabile e anche quel rumorino di zampette di topo che mi faceva impazzire giorno dopo giorno.
Continuavo a pensare alla stanza dei bambini. Com’era possibile che ci fossero tanti mocciosi tutti assieme, dopo anni che quella peste continuava a imperversare sulla Terra? Erano sopravvissuti. Sì, solo così era spiegabile. I contatti con la Terra erano cessati dopo dieci anni di malattia e morte. Nessuno se n’era preoccupato, si continuava solo a pensare alla risposta dello scatenarsi della malattia e all’eventuale vaccino per uccidere il virus. Nient’altro. Molti degli adulti si erano trasferiti al distretto Marte – compreso me stesso – e per paura di portarsi dietro il virus da Terra si era vietato di fare altri figli, definitivamente. Allora come si spiegavano quei marmocchi chiusi nelle celle?
Quello stronzo matricolato di Douglas, bravo a raccontare balle e poi che significava «lo capirà molto presto, glielo assicuro»… Uff, era ricominciato. Mi arrovellavo il cervello. Era brutto stare senza far niente: noia totale che ti assale sempre più. Dov’era il topo? Il mio unico amichetto?

L’infermiere entrò nella mia cabina dopo qualche ora e senza guardarmi in faccia mi sparò qualcosa nelle vene. Gli chiesi: «cos’è?». Lui, sorpreso dalla domanda, mi rispose: «un tranquillante, la farà stare meglio».
Troppe domande. Da tempo non mi capitava di pensare così tanto. Forse qualche volta da bambino. Non ricordo neanche come fosse essere bambino. Era passato troppo tempo. Sì, ricordo. Tutto era una sorpresa, una scoperta. Mi chiedevo il perché di tutto e avevo paura di stare male e di soffrire. Tutti pensavano ad altro che a giocare e si era curiosi di tutto quello che si vedeva o toccava. Belle emozioni. Bei tempi davvero.

Che dolore sento la pelle tirare in faccia. Alzo gli occhi verso lo specchio. Non riesco a credere a quello che vedo. Sembro più basso. Che strano rinfoltimento ai capelli. La mia faccia è più paffuta e colorita del normale. E… sembra incredibile… le incipienti rughe stanno scomparendo.

Ambra Simeone, Monza, 2015

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Ambra Simeone

Ambra è nata in un paese di mare e ogni volta che si trova in un posto nuovo, lì lascia qualche goccia salmastra. Quando scrive si lascia trasportare dalle brezze marine, quando disegna non usa squadre o righelli, e per entrambe le cose la bussola fa più di un giro. Quello che legge e ascolta non è assimilabile ad un solo genere, perché per lei le parole e la musica non seguono nessuna corrente.


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