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Alzi la mano chi dal dibattito sui media ha capito cosa cambierà con il Jobs Act, la riforma del lavoro di Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Dopo l’incontro al centro sociale Acquedotto devo ammettere che comincio ad avere le idee più chiare. È stato il professor Paolo Pini, docente di economia politica presso l’ateneo estense, a diradare un po’ la nebbia che, seguendo – lo ammetto – solo il dibattito mediatico su questo argomento, avvolgeva il vituperato disegno di legge delega sul mercato del lavoro dal nome così modaiolo ed esterofilo.
Il docente ha passato in rassegna quelli che ha chiamato i quattro pilastri di questa riforma: riduzione del cuneo fiscale, politica industriale per il manifatturiero italiano e il made in Italy, ricomposizione del mercato del lavoro tramite il contratto a tutele progressive, semplificazione delle norme sul lavoro. È venuto fuori che, per quanto riguarda i primi due, nel Jobs Act è stato fatto ben poco: non si è intervenuti sulle tre voci più importanti del cuneo fiscale, cioè i contributi previdenziali e sociali a carico dei lavoratori e dell’impresa e le imposte sul salario lordo a carico del lavoratore, e la politica industriale è “materia non pervenuta, a meno che non si ritenga che politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni”, ha affermato il docente.
Ma le osservazioni più interessanti sono emerse a proposito del contratto a tutele progressive e delle correlazioni fra flessibilità, aumento dell’occupazione e della stabilizzazione dei contratti, maggiore investimento delle imprese sui lavoratori con conseguente aumento della produttività e quindi dell’efficienza. Prima di tutto, secondo Pini, il mercato del lavoro italiano non sarebbe affatto uno dei più rigidi: “Fra i Paesi industrializzati è diventato uno dei più flessibili”. In altre parole, “dato che si faceva fatica a smantellare il mercato del lavoro tutelato, si è creato a fianco un mercato del lavoro privo di tutele e poi è stato fatto crescere”, mentre l’altro si starebbe estinguendo con il tempo e i pensionamenti. Dunque, paradossalmente, della modifica dell’articolo 18 in realtà non ci sarebbe nemmeno così bisogno perché il turn over avviene sostituendo contratti tutelati con nuove forme senza tutele. Inoltre Pini ha dimostrato con tanto di dati e grafici Ocse e ministeriali che non ci sono evidenze empiriche che una maggiore flessibilità aumenti l’occupazione o la successiva stabilizzazione dei contratti, e ancor di meno favorisce la produttività, che dipende sì dalle risorse umane, ma soprattutto dagli investimenti in innovazione e formazione e dall’organizzazione del lavoro. Ad aggravare la situazione, il continuo succedersi di riforme senza monitoraggio dei risultati di quelle precedenti: si procede così a una nuova modifica dell’articolo 18, senza prima aver promosso analisi, indagini, studi di un qualsiasi tipo sulla precedente modifica a firma Fornero.
Infine una panoramica sulle attuali condizioni del mondo produttivo italiano: nonostante tutte le riforme che si sono succedute in questi ultimi convulsi anni di crisi, non c’è stato sicuramente un aumento dell’occupazione e men che meno è aumentata la produttività (ammettendo che la soluzione sia produrre di più e non produrre meglio e cose diverse).
“Ma se la flessibilità sul mercato del lavoro l’abbiamo fatta, cosa manca? – si è chiesto in conclusione il professor Pini – Manca flessibilità dentro le imprese: non abbiamo cioè lavorato sull’organizzazione del lavoro all’interno delle aziende”. In altre parole la produttività non ha nessuna relazione con la precarietà, anzi quando c’è è negativa, ma è collegata agli investimenti in ricerca e sviluppo, in formazione, all’organizzazione della produzione. Chi pensa ancora che il problema sia l’articolo 18?

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Federica Pezzoli



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