Il Tebaldeo, precettore di Lucrezia e virtuoso della “maniera cortigiana”
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TEBALDEO
a 550 anni dalla nascita
Antonio Tebaldi (1463-1537), detto il Tebaldeo, entrò alla corte ferrarese nel 1488, fu precettore di Isabella d’Este e segretario prima del cardinale Ippolito e poi della bella Lucrezia Borgia. Successivamente si trasferì a Roma, dove godette dell’amicizia di insigni letterati quali Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione e di grandi pittori come Raffaello Sanzio, il quale fra l’altro lo ritrasse nel suo celebre affresco del Parnaso. Durante il “sacco” di Roma, nel 1527, perse tutti i suoi beni e averi e trascorse in povertà gli ultimi anni di vita.
Il Tebaldeo raggiunse la notorietà grazie alle proprie opere giovanili in volgare, quantunque presso i critici più tardi, fra cui Giosue Carducci, questa parte della sua produzione non abbia mai colto consensi veramente positivi. Tuttavia, nel 1499 a Milano apparvero i Soneti, capituli, due ecloghe del prestantissimo M.A. Tebaldeo, ripubblicati a Venezia tre anni prima della morte dell’autore con il titolo L’opere d’amore, che lo consacrarono come uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “maniera cortigiana”: una sorta di ingegnosa concettosità, di leziose divagazioni e compiaciute metafore, definibile quasi come una specie di manierismo ante litteram.
Comunque, Antonio Tebaldeo conseguì i suoi esiti più felici nella poesia latina. «Nel Tebaldeo ci sembra di ravvisare l’artista che affila il suo strumento dell’arte, – osserva il filologo Silvio Pasquazi – rivestendo di altri panni e forme il suo mondo interiore. In fondo egli assisteva non indifferente alla lotta tra il volgare e il latino, una lotta beninteso, non tra due rivali inconciliabili. La lima migliore del Tebaldeo consisteva nel sentire se tra un modo e un altro, tra una struttura sintattica più complessa e una più semplice, con un’aggettivazione più sobria e rara o più larga e distesa, la sua composizione si avvicinasse al “pathos” di un testo antico, come sapore e natura linguistica, e se potesse reggere nel confronto con gli altri testi, elaborati dagli amici suoi ferraresi».
Dalle risonanze e dalle aperte imitazioni che talvolta si riscontrano nei Carmina latini del Tebaldeo, si desume che egli ebbe in specie a maestri Ovidio, Virgilio, Tibullo, Catullo e Orazio, né gli furono estranei il modello greco di Pindaro e i modelli suoi contemporanei rappresentati dal Pontano, dal Panormita, dal Poliziano, da Pico della Mirandola, dal Boiardo. «A ragione, il Tebaldeo può ritenersi il più versatile dei poeti ferraresi, – afferma ancora Silvio Pasquazi – e se ha in comune con essi la predilezione per alcuni temi, in lui si avverte una rispondenza maggiore e uno stile più ricco e sostenuto, che rivela una conoscenza sicura e talora squisita dei modelli classici. Anch’egli pecca di ampollosità e di gonfiezza, ma è stato giustamente osservato che raramente cade nella sdolcinatura, e quel tanto di stanchezza che a momenti ingenera si deve alla ripetizione e alla vacuità di alcuni soggetti».
Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013
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Riccardo Roversi
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