Il Teatro Verdi: da contenitore vuoto a scommessa di innovazione
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Quella di ieri è stata una mattinata dedicata a passato, presente e futuro del Teatro Verdi, un luogo che da secoli vede scorrere la storia della città e che da trent’anni aspetta di essere restituito ai cittadini. Ora sembra che ci siamo: grazie ai fondi dell’asse 6 “Città attrattive e partecipate” del Por-Fesr Emilia Romagna 2014-2020 (Programma operativo regionale – Fondo europeo di sviluppo regionale), l’ex teatro diventerà il contenitore di un ‘laboratorio aperto’ sui temi del turismo e della mobilità sostenibili. Una mattina, dunque, organizzata anche per familiarizzare con concetti come ‘rigenerazione urbana’, ‘sviluppo urbano sostenibile’, ‘laboratori aperti’, ‘innovazione dal basso’, ‘smart cities’ e ‘smart communities’: un lessico che sembra declinare e fare da cornice alle nuove forme di partecipazione dei cittadini alle politiche di governance delle proprie comunità, dal singolo quartiere fino all’intera città.
L’investimento necessario? Secondo quanto ci ha spiegato ieri mattina l’assessora allo sviluppo territoriale, relazioni internazionali e progetti europei, Caterina Ferri, saranno investiti in totale “3 milioni e 750mila euro”: 3 milioni li metterà la Regione attraverso appunto i fondi del Por-Fesr, mentre il Comune integrerà i restanti 750mila euro. I fondi, ha continuato Ferri, saranno così suddivisi: “2 milioni verranno destinati alla ristrutturazione dell’edificio, 1 milione e 400mila euro alla gestione per i primi cinque anni, che verrà affidata tramite un bando di gara costruito con la partecipazione di associazioni, imprese e cittadini, mentre i restanti 350mila euro verranno utilizzati per la promozione e l’organizzazione di eventi”. “I lavori dovrebbero concludersi entro il 2018 e l’obiettivo è avere lo spazio aperto e il gestore entro il 2019”, ha detto Ferri.
Ma partiamo dal principio.
Da dove veniamo e dove vogliamo andare: la storia e il futuro del Teatro Verdi
È stato Francesco Scafuri, responsabile dell’ufficio ricerche storiche del Servizio beni monumentali-centro storico del comune di Ferrara, a ripercorrere con il pubblico la storia del teatro e della piazza antistante, proprio all’interno dello stabile, sabato mattina eccezionalmente aperto a tutti i curiosi.
Una storia che inizia già nel 1428-31, quando Niccolò III d’Este fece costruire il Castelnuovo, detto anche Fortezza di Sant’Agnese, con “funzioni prevalentemente difensive”. Secondo quanto ha rivelato Scafuri, fu proprio qui che Ercole venne nominato secondo duca di Ferrara e qui “morì il cardinale Ippolito, le cronache ci dicono per aver condotto una vita dissipata”. Nel 1570 la fortezza fu demolita, a causa dei danni del sisma che colpì la città, e iniziò “il riammodernamento della cinta muraria meridionale” con la costruzione dei “baluardi ad asso di picche”. Protagonista di questo cantiere quel Giovan Battista Aleotti che anni dopo, nel 1605, ricevette dal marchese Bentivoglio la commissione di trasformare un granaio in un teatro. Quel granaio, concesso in affitto da Cesare d’Este all’Accademia degli Intrepidi, diventò così “uno dei primi teatri stabili in Italia”. Nel 1679 venne distrutto da un incendio e fino al 1904 lo spazio venne usato come “mercato dei cavalli”. Nel frattempo, nel 1857, lì accanto era iniziata la costruzione dell’Arena Tosi Borghi, così chiamata perché “gestita dall’allora capo macchine del teatro comunale di Ferrara e da sua moglie”: un anfiteatro scoperto, “un teatro popolare anche per spettacoli di circo”, ha spiegato Scafuri.
Il teatro fu completamente ricostruito fra 1912 e 1913, aumentando la capienza di pubblico fino a 2.000 persone: l’inaugurazione fu il 17 maggio 1913 con l’Aida di Giuseppe Verdi. Ecco da dove è derivato il nome con il quale è ancora conosciuto da tutti i ferraresi.
Negli anni Trenta, proprio in ragione di questa sua natura più popolare, “veniva più gente qui al Verdi che al Comunale”, ha sottolineato Scafuri. Il Verdi rimase assai attivo come “teatro di rivista” fino alla seconda guerra mondiale: sulle tavole del suo palcoscenico si è esibito Macario e “il 20 febbraio 1942 ha debuttato in prima assoluta il nuovo spettacolo della compagnia di rivista di Totò e Anna Magnani”. Chiuso nel biennio 1943-45, il teatro nel secondo dopoguerra è andato inesorabilmente in disuso fino alla definitiva chiusura nel 1985. Il Verdi è diventato di proprietà pubblica nel gennaio 1999 quando lo ha acquistato il Comune. Da allora è iniziata una nuova fase della sua storia: come restituire questo contenitore alla comunità e tentare di farlo diventare il primo motore di un processo che inverta il degrado della zona.
Ecco perché l’urbanista Sergio Fortini di Città della Cultura-Cultura della Città – l’impresa cooperativa e start-up culturale che per prima ha intuito e fatto emergere le potenzialità di questo spazio – ha affermato: “oggi è il principio di un nuovo corso”. Fortini ha definito il Teatro Verdi un “edificio quartiere”, perché le sue vicende rappresentano “il flusso del vivere” della zona e negli ultimi anni ne ha incarnato “i sentimenti negativi”. Un “nuovo gruppo di intrepidi”, ha scherzato l’urbanista, “ha deciso di riattivare questo edificio” e porre al centro del progetto “la rigenerazione urbana e la mobilità sostenibile, legandole anche all’heritage”: ci saranno “artigiani e pensatori” per creare “un cortocircuito” fra mobilità, patrimonio culturale e accessibilità.
È toccato poi alla sua collega, l’architetto Elisa Uccellatori, parlare del futuro dell’edificio, che ospiterà “un laboratorio urbano”, “un centro Unesco” e “un bike-cafè” dove sarà possibile entrare in bicicletta come in una sorta di piazza coperta; “al primo piano ci saranno spazi per i makers, per chi si inventerà qualcosa per il futuro della città e della mobilità, ci saranno sale studio e sale per conferenze”. I palchetti ospiteranno “l’esposizione del museo della bicicletta” e anche “la torre scenica diventerà un ulteriore spazio espositivo per mostre temporanee”.
Foto di Valerio Pazzi e Patrizio Campi [Clicca sulle immagini per ingrandirle]
Laboratori aperti di rigenerazione urbana: il progetto emiliano-romagnolo ed esempi di buone prassi
È stato il sindaco di Ferrara Tiziano Tagliani a fare gli onori di casa alla Sala Agnelli della biblioteca Ariostea, dove è stato illustrato il percorso che porterà alla riapertura dell’ex Teatro Verdi. Il progetto, ha spiegato il primo cittadino, è inserito “nell’ambito dei laboratori urbani” della Regione Emilia Romagna: quello di Ferrara si concentrerà su turismo e mobilità sostenibili. “Una sfida significativa” per far diventare il Verdi “uno spazio di riflessione, come non abbiamo fatto fino ad oggi, sulle interconnessioni fra le varie forme di mobilità”, prime fra tutte la ciclabile e la fluviale, ha concluso Tagliani.
L’assessora Caterina Ferri, invece, ha illustrato l’agenda che porterà già a febbraio 2017 al bando per la gestione degli spazi: il 17 dicembre agli Ex Magazzini Savonuzzi si terrà “una giornata dedicata al laboratorio del Verdi su turismo e mobilità sostenibile”, poi nei mesi successivi una serie di “workshop dedicati alla costruzione del bando di gara e dell’identikit del gestore o dei gestori” nei quali saranno coinvolti associazioni, imprese e cittadini.
Il resto della mattinata è stata dedicata agli interventi di Silvano Bertini e Daniela Ferrara, che hanno illustrato il progetto dei ‘laboratori urbani’ e come funziona il finanziamento attraverso il Por-Fesr, e a quelli di Ilda Curti, Gaspare Caliri e Matteo Zulianello, che hanno portato esempi di buone prassi a Torino, Bologna e Milano.
L’asse 6 del Por-Fesr (Programma operativo regionale-Fondo europeo di sviluppo regionale) Emilia Romagna 2014-2020 è dedicato alle “città attrattive e partecipate”, l’obiettivo è “innescare processi di partecipazione dei cittadini e delle imprese alle scelte strategiche della città per accrescere l’inclusione”, ha spiegato Daniela Ferrara. Sono coinvolte le nove città capoluogo della regione più Cesana e i fondi del programma sono in totale “30 milioni di euro”, ai quali si aggiungono “7,5 milioni di euro di cofinanziamento da parte dei comuni”. Si è scelto di creare “laboratori aperti, ospitati dentro beni culturali che siano beni identitari per le comunità”, ha continuato Ferrara, per creare “uno sviluppo urbano basato sull’innovazione dal basso, partendo cioè sempre da esigenze concrete”. “Per noi – ha concluso – le parole chiave sono: centralità dei luoghi, idee, contaminazione e rete, non solo digitale, ma fisica fra gli stessi laboratori urbani”. Per questo il suo collega Bertini ha sottolineato: “se mi chiedete dove stiamo andando con il teatro Verdi, la risposta è: non lo sappiamo ancora. È un percorso che si dovrà autocostruire attraverso le sollecitazioni dei cittadini”.
Uno dei possibili esiti è quello delle Case di quartiere di Torino, di cui ha parlato Ilda Curti, che le ha viste nascere e ha lavorato alla loro crescita nei due mandati come amministratrice della città. Queste case, in totale nove, nate fra 2007 e 2013, secondo Curti sono “spazi e luoghi per le comunità del cambiamento”: “quando abbiamo iniziato a immaginarci questi luoghi, anche noi non sapevamo bene cosa stavamo facendo, solo nel 2012 abbiamo riconosciuto tratti comuni che abbiamo cercato di codificare”. Il tratto distintivo è non avere un target: “sono luoghi aperti a tutti i cittadini sette giorni su sette, con un continuo cambiamento della platea di fruitori”, vi si sperimentano “nuovi modi di fare welfare sviluppando le reti di prossimità e la ricerca di soluzioni a bisogni comuni”, grazie anche a operatori che Curti ha definito “artigiani sociali”. Per chi volesse un po’ di numeri: spazi per un totale di 12.700 mq, 9 attività commerciali, 250 associazioni e gruppi informali ospitati, 7.200 frequentatori abituali, una ricaduta occupazionale di 21 contratti full-time e 57 part-time. Il lavoro più difficile, secondo Curti, è “connettere gli attori” e “gestire il conflitto”, far capire che non si è in un condomino, ma in una casa, e ciò implica “coabitazione e corresponsabilità”; inoltre bisogna “pensare contemporaneamente alla città di pietra e alla città di carne, all’urbs e alla civitas” e ricercare continuamente “il giusto rapporto ed equilibrio fra auto-sostenibilità economica e contributo pubblico”, perché rimangano sempre spazi orientati al bene comune della comunità di riferimento.
Gaspare Caliri di Kilowatt ha parlato dell’esperienza delle Serre dei Giardini Margherita di Bologna: “non siamo noi a proporre cosa succede, facciamo da connettori fra realtà strutturate e gruppi informali, che portano innovazione nelle politiche urbane”. Attualmente le Serre ospitano: il coworking di Kilowatt, un asilo per i cowerkers, un bistrot, un orto e una sala polifunzionale. Da giugno a settembre 2016 sono state organizzate 20 proiezioni cinematografiche e 70 eventi, sono state coinvolte 60 associazioni cittadine e per le Serre sono passate circa 55.000 persone. “La nostra esperienza è la dimostrazione che è possibile creare un patto fra pubblico, privato e comunità”. Infine, un’altra soluzione potrebbe essere quella milanese di Avanzi con il suo spazio Upcycle, illustrata da Matteo Zulianello: “un’osmosi di spazi e contenuti” fra coworking e un locale che è contemporaneamente uno spazio per gustarsi le classiche di ciclismo e per presentare i nuovi prodotti da parte degli operatori specializzati, uno spazio di ristorazione, relax urbano, eventi e cultura, un luogo per eventi business.
Quale sarà il futuro del Verdi? Non c’è una soluzione giusta: a Ferrara e ai ferraresi scegliere quella che fa per loro o, perché no, inventarsene una tutta propria.
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Federica Pezzoli
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