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Uomo generoso, arguto, colto, sensibile… Gianfranco Maiozzi ci ha lasciato dopo una lunga malattia. Ha sofferto molto, ma non si è mai arreso. Aveva voglia di vivere e con tutte le sue forze, fino all’ultimo, si è aggrappato alla speranza. Gli piaceva dialogare, stare in mezzo agli altri; nutriva mille passioni e le alimentava nel confronto e nella condivisione. Il suo lavoro era all’ufficio Comunicazioni del ministero per lo Sviluppo, ma i suoi interessi svariavano in mille ambiti differenti, dalla politica alla sport, con un’irresistibile attrazione per la lettura e la scrittura. Appena pochi giorni fa abbiamo avuto una lunga e piacevole conversazione, durante la quale, con il consueto trasporto, aveva vagheggiato di programmi futuri e di cose da fare. Ci siamo illusi che la sorte potesse essere benevola.
Nel ricordarlo con profondo affetto e rimpianto, riproponiamo un suo intervento edito qualche anno fa su Ferraraitalia, uno scritto dal tono lieve, ma ricco di citazioni e calembour, del quale era particolarmente soddisfatto. Crediamo sia la maniera più giusta per salutarlo stringendolo in un ideale indissolubile abbraccio. (s.g.)

 

(Pubblicato il 13 maggio 2014)

Ci troviamo idealmente sul monte Falterona, nel cuore del Casentino, provincia di Arezzo. Qui, in località Capo d’Arno ci sono le sorgenti del fiumicel cantato da Dante nella Commedia e qui siamo saliti, sfidando condizioni meteo a dir poco avverse, per risciacquare nella pura freschezza dell’acqua sorgiva dell’Arno, quei “panni” di cui parlava Manzoni; e non solo quelli. A voi possiamo dirlo: siamo in missione per conto della lingua italiana, stanca di venire imbrattata quotidianamente con macchie di pressappochismo. Queste macchie hanno la caratteristica di non essere troppo evidenti ma una volta fatte vengono via con difficoltà e nei casi più seri alterano in modo indelebile il tessuto della lingua. Nel nostro Paese il congiuntivo è diventato un optional e quando lo si usa, spesso lo si usa a sproposito e talvolta si riesce a scivolare persino sull’indicativo. Tuttavia la cosa peggiore è che ormai in Italia si scrive e si parla in… approssimativo, estendendo sempre più spesso questa deplorevole pratica di pressappochismo militante a lingue diverse dall’italiano. Esagerazioni? Sentimentalismi per una lingua aulica e pre-televisiva che non esiste più? Nostalgie di gente che passa il tempo a far la punta alle matite? (“siam mica qui…” avrebbe detto qualcuno).

Soltanto pochi mesi fa, stampa, radio, tv rendevano giustamente conto e altrettanto giustamente avanzavano ipotesi sul confronto tra i leader del Partito Democratico. E fin qui tutto bene, era il loro lavoro. Meno bene invece,quell’espressione che accompagnava i commenti sulle aspre contese che agitavano la segreteria del Pd: “volano gli stracci”, attribuendo a tale locuzione significato di resa dei conti. “Ma mi faccia il piacere!” avrebbe detto Totò. E infatti siamo di fronte ad un uso del tutto arbitrario e improprio degli “stracci volanti”. Certo quando due o più soggetti litigano, il traffico aereo nella zona può essere particolarmente intenso. Possono volare insulti, parole grosse, oggetti – preferibilmente stoviglie e vasellame – in genere. Possono volare anche scarponi e certo, anche gli stracci o meglio gli strofinacci e i tovaglioli, e finire magari nella pentola dello zuppone alla porcara, come nella solenne litigata tra Gassman e Tognazzi nel film “I nuovi mostri” di Monicelli. Ma coloro che scrivono o dicono “volano gli stracci” volendo significare un “redde rationem” senza esclusione di colpi, beh sbagliano, sono dei pressappochisti. E qui ci sono le prove:
“Stracci che volano” com. l’espressione prov. sono gli stracci (o i cenci) che vanno all’aria, o volano, significa che sono i più deboli e indifesi che pagano per gli altri”. (Dizionario Treccani della lingua italiana).

Capito? Possiamo comprendere anche se non condividere la scelta di chi, nel corso di una telecronaca, usa l’espressione “fare a sportellate” per dire di due calciatori che si confrontano in modo molto fisico per contendersi la palla, ma non coloro che evocano la levitazione dei cenci anche se si discute della temperatura di servizio del caffè. La prima almeno è un neologismo di senso compiuto, non bello ma nemmeno privo di efficacia evocativa, la seconda è solo un travisamento di senso. “E va beh che sarà mai! Tanto rumore per quattro stracci…”, penserà qualcuno. Il problema è che non ci sono solo i cenci e nella breve antologia che segue ve ne renderete conto voi stessi. Solo pochi esempi, per ragioni di spazio, ché altrimenti dovremmo citare i primi versi di una vecchia canzone degli E.L.& P. “Welcome back my friends, to the show that never ends…”.

Cominciamo da quelli che non fanno distinzione tra riluttante e reticente; e come si fa a non richiamare in causa il principe de Curtis? …riluttante sarà lei ha capito? Razza di reticente!… Poi ci sono quelli che “non per essere veniale” oh yeah che a pensarci bene essere venali non è affatto veniale, per passare a quegli altri che usano la problematica, magari raddoppiando la bbi al posto di problema, pensando così di dare maggiore importanza a quel che dicono e ignorando che le due parole hanno significati simili ma ben distinti. Per la serie “ma che ce frega ma che ce ‘mporta….”. E va bene. Andiamo avanti.

Vogliano benevolmente sorvolare su quella tale che, presentando in radio una mostra sul Rinascimento italiano, non trovò niente di meglio che accompagnare il servizio con musiche tratte dal concerto per chitarra e orchestra di Mauro Giuliani. Bella composizione, senza dubbio! Scritta però qualche tempo dopo il periodo storico cui la mostra si riferiva, tanto da venire dedicata al… viceré d’Italia Eugenio Beauharnais, cognato di Napoleone. Et bien, glissons. Ma come non restare interdetti quando leggendo il nostro bravo quotidiano ci troviamo di fronte alla graticola di colpi che avrebbero investito dei malcapitati durante una rissa? Forse si voleva dire gragniuola. E la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso confusa con la spada di Damocle? Oppure l’impero cinese che da celeste diventa “del sol levante”: ma quello non era il Giappone? E ancora, la foto azzurro e oro della Cupola della Roccia, o di Omar che caratterizza lo skyline di Gerusalemme confusa da una didascalia con la non meno bella Moschea di Al Aqsa, che pur trovandosi come la prima nel “Haram ash Sharif”, il nobile recinto o più comunemente spianata delle moschee, è un edificio a se stante. Un po’ come se uno scrivesse sotto la foto del Battistero di Firenze che invece è Santa Maria del Fiore. Certo stanno entrambi in Piazza del Duomo, però… “Che ci arifrega che ci arimporta…“.

E la “panchina corta”? Ne vogliamo parlare? Sentito in un programma radiofonico nazionale. Si cita Winston Churchill e la “cortina di ferro” definendola una frase. Ma no che non è una frase! E nemmeno una parola, bensì…. una definizione, un’espressione. E-spres-siò-ne! “non so se capisce questa parola signor Arbore” avrebbe detto con l’accento messinese grave sulla o, il bravo presentatore Nino Frassica di ‘Indietro tutta’.
Ma andiamo avanti invece, per penoso che sia. Da un giornale online apprendiamo di una “squadra che ha ancora fame di vittorie come hanno dimostrato le recenti vittorie”: 2 vittorie in 6 parole. Dizionario dei sinonimi no!? La seconda volta si poteva ben usare affermazione o successo, ottenendo un risultato migliore. Il fatto è che, per restare alla metafora calcistica, spesso si gioca con la “panchina corta”, dove anziché i giocatori sono le parole ad essere contate. Si fanno tante ripetizioni o si usano termini imprecisi perché il parco terminologico di chi parla o scrive è incompleto, lacunoso.
E quello che si butta sotto i binari, evocando scenari da Gotham City? Ma dai!! direbbe la Gialappa. Meglio tacere e andare avanti come… mormorava il Piave.

Tuttavia qualche considerazione sull’avverbio piuttosto, usato con valore disgiuntivo al posto della ‘o’, e tipico di quell’italiano di consumo bruttino e conformista, bisognerà pur farla. Piuttosto che, piuttosto che, piuttosto che… maddeké! Ci si perdoni l’intervento in tackle scivolato nel vernacolo romanesco ma quando ce vo ce vo! Tutti questi piuttosto messi in fila come catarifrangenti su una statale, fanno tanto presentazione di Windows 9 o di un ennesimo iPhone per non far torto a nessuno …si può taggare p.c. editare p.c . inviate una mail ….p.c. videogiocare.
E, per citare Forrest Gump, su questo argomento non abbiano altro da dire. Si legga piuttosto l’esilarante consulenza linguistica sull’ottimo sito dell’Accademia della Crusca [vedi], strumento che non dovrebbe mancare nel tool-kit di ogni buon comunicatore.

Tranquilli, che ci avviamo a concludere. Non prima di aver rivolto un doveroso pensiero a tutti quei termini vittime di incidenti di pronuncia radiotelevisiva. Pochi, commossi esempi (piangere, in effetti, c’è da piangere). Prima di tutto il francese, la cui scarsa o inesistente conoscenza da parte di molti operatori dell’informazione nazionale, viene regolarmente aggirata pronunciandolo come se fosse inglese (a volte come fosse antani!). In un gr il nome del pilota ginevrino (Ginevra, Svizzera francofona: quella anglofona ancora non c’è: Svizzera, non Canada!) di Formula 1, Romain Grosjean diventava Grosgiin, come Billie Jean. Ma forse chi dava la notizia era un irriducibile fan di Michael Jackson. A proposito, se parliamo della pop star, il nome si legge Maikol ma se si tratta di Michael Schumacher che non è americano ma tedesco, si scrive nello stesso modo ma si dovrebbe dire Mihael con l’acca aspirata come pronuncia la c di casa un fiorentino di Borgo San Frediano.

E cambiamo senz’altro argomento. Che cosa diavolo sarebbe il “vin d’onor” sentito sempre in radio a proposito di un rinfresco legato a una mostra d’arte? Detto così ricorda la musicale lingua veneta usata da Carlo Goldoni nelle sue commedie “xe una dona /un cavalier d’onor” ma non è il francese dell’espressione vin d’honneur. Se non la si sa pronunciare comme il faut si dica vino d’onore che è comunque corretto e si fa più bella figura.
L’ultimo, toccante omaggio va alla nave militare italiana “Euro” che porta, come tutte le fregate c.d. di classe Maestrale, il nome di un vento. E quindi Grecale, Scirocco, Libeccio e così via. Euro è un vento ricordato anche da Dante “sopra ’l golfo che riceve da Euro maggior briga”, che spira da sud est. Vento mediterraneo il nostro Euro, nel mito greco accompagnatore dell’Aurora dalle dita rosate. Mai stato in Cornovaglia o alle isole Shetland. Come accidenti, sia potuto accadere che nel corso di un programma tv, a qualcuno sia venuto in mente di pronunciare Euro “iuro” (sic!) all’inglese, resta a tutt’oggi un mistero. Anche perché non risulta che la Royal Navy abbia vascelli con questo nome. E a proposito di Inghilterra, come non citare la frequente confusione tra gli steward, che sono come noto assistenti di volo o addetti alla sicurezza nelle manifestazioni sportive, e gli Stewart o Stuart, casa reale che diede re e regine ai troni di Scozia e di Inghilterra, ma anche cognome, tra gli altri, di un grande pilota di Formula 1 (Jackie) e di una giovane e promettente attrice (Kristen).

Un’ultima considerazione dal tavolino del caffè Le Giubbe Rosse di Firenze, che è il luogo reale (non lontano dall’Arno ma innegabilmente più comodo delle foreste casentinesi) dove abbiamo buttato giù queste righe. Lo stamani mattina cui ci sta abituando il nuovo presidente del consiglio ha una forte connotazione fiorentina ma per quanto un po’ ostentato è linguisticamente corretto. Meno bene la raffica di assolutamente sì (o assolutamente no) usati con troppa disinvoltura da cui veniamo investiti quotidianamente. Va bene nel caso in cui qualcuno ci chiede se siamo sempre convinti di partecipare a una regata transoceanica o a tentare una nuova via invernale sul Nanga Parbat. Meno bene se ci stanno servendo il caffè e ci chiedono se ci vogliamo lo zucchero. “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no”, ammoniva saggiamente venti secoli fa un giovane galileo.

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Gianfranco Maiozzi



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