L’autoritratto è l’espressione artistica della volontà dell’artista di lasciare una traccia di sé non solo attraverso le sue creazioni, ma anche attraverso la propria rappresentazione fisica.
Quasi completamente sconosciuto nell’arte antica, il genere dell’autoritratto iniziò a fare la sua comparsa nel periodo medievale, sebbene non fosse un genere autonomo, ma piuttosto un inserimento in altre rappresentazioni più ampie, al fine di rendere nota la paternità dell’opera non soltanto ai contemporanei, ma anche alle generazioni future. E non importava una corretta raffigurazione fisiognomica, perché ciò che contava erano le connotazioni sociali e professionali.
È solo nel corso del Rinascimento che il genere dell’autoritratto raggiunse la sua completa fortuna e dignità artistica, mentre nel corso del XVII secolo vide l’affermarsi dell’introspezione psicologica dell’artista, che si fece sempre più profonda col progredire degli studi di Sigmund Freud.
Sono stata invogliata ad approfondire il tema dell’autoritratto, che ho tratteggiato in queste poche righe, dall’interesse per Vincent Van Gogh, che fece un racconto autobiografico attraverso la rappresentazione della propria immagine.
E poi un giorno, immersa nell’affascinante mondo dell’arte, ecco la folgorazione: con orrore mi sono resa conto che l’autoritratto di oggi che studieranno i posteri è il selfie e che gli “artisti” ricordati in futuro sono questi cultori dell’autoscatto, professionisti del vacuo, che davvero poco hanno per cui essere ricordati.
Sconsolata mi abbandono all’ineluttabile sentenza che, ahimè, ardua, ai posteri come sempre spetta.
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Federica Mammina
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